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Lascio la macchina nell’ampio parcheggio della funivia. Cammino verso il monte Lussari. Camporosso Valcanale si distende sotto di me a ottocento metri di quota, frazione di Tarvisio che custodisce l’ingresso verso il monte sacro.
La mia meta è lassù, a millesettecentonovanta metri: il Monte Lussari, una delle cime delle Alpi Giulie che da secoli attrae pellegrini da ogni angolo del mondo.
Il cartello marrone appare verso il fondo del piazzale, accanto alla rotonda che disegna il suo cerchio perfetto sull’asfalto. “Malga Lussari – Sentiero del Pellegrino” recita con quella sobrietà che hanno le indicazioni importanti. Comincio a risalire la strada asfaltata, respirando l’aria fresca che scende dalle vette circostanti. Il panorama a trecentosessanta gradi che mi attende prometterà di svelarmi la conca del Tarvisiano, i gruppi del Mangart e del Jof di Montasio – nomi che portano con sé l’eco di antiche leggende alpine.
Alla fine dell’ultima porzione di asfalto, dove le case sparse sembrano aggrappate al versante, incontro la statua che commemora il “Cammino Celeste”. È qui che molti pellegrinaggi trovano la loro conclusione, o forse il loro vero inizio. I cartelli escursionistici indicano due ore e trenta di marcia fino al santuario. Attraverso un piccolo ponte e sento sotto i piedi il cambiamento: l’asfalto cede il posto alla terra battuta, il mondo civilizzato si dissolve nell’abbraccio del bosco.
Le pendenze si rivelano subito impegnative, costanti come un respiro profondo della montagna. Il sentiero ghiaioso scorre sotto le mie suole senza tradimenti, privo di insidie che potrebbero rallentare il passo. La strada principale non conosce deviazioni significative – è impossibile smarrirsi quando si segue l’unica via che conduce verso l’alto.
La prima cappella di legno emerge tra gli abeti come un segno di punteggiatura nel grande libro del bosco. Il crocifisso veglia silenzioso sui viandanti, e poco oltre ecco la prima Stazione della Via Crucis a milleduecentosessanta metri. Le quattordici stazioni si susseguiranno lungo il cammino, conservate con cura meticolosa, testimoni di fede e di fatica umana.
Alla seconda Stazione il pendio si accentua nuovamente, poi si placa nei pressi della terza come se il monte volesse concedere una tregua. Il Parco naturale Foresta di Tarvisio mi avvolge nella sua ombra refrigerante – un dono prezioso anche in queste giornate estive. Supero un piccolo corso d’acqua che mormora storie antiche, e a millequeattrocentocinquanta metri circa di altitudine incontro il pilone della seggiovia della Skiarea. Qui l’inverno trasforma questo versante in una distesa bianca solcata da sci, ma ora domina il verde intenso del sottobosco.
Dopo qualche centinaio di metri nel cuore della foresta, un sentiero poco marcato si dirama verso destra, segnalato da cartelli che promettono una scorciatoia per “scavalcare” Malga Lussari. Potrei risparmiare tempo, evitare quella che invece potrebbe rivelarsi una sosta preziosa. Scelgo di non abbandonare la strada principale – a volte le deviazioni ci fanno perdere più di quanto ci facciano guadagnare.
Con la stessa pendenza costante che caratterizza tutto il percorso, emergo improvvisamente dal bosco. Il pianoro si apre davanti ai miei occhi come una sorpresa: a millecinquecentottantacinque metri di quota sorge Malga Lussari, un rifugio che invita alla sosta e alla contemplazione.
Mi siedo a uno dei tavoli di legno della contrada e lascio che lo sguardo vaghi sull’orizzonte. È qui, in questo silenzio rotto solo dal vento tra le fronde, che mi tornano alla mente i versi di Pierluigi Cappello:
Gli orli hanno la luce di settembre
come una bella mela le nuvole
oggi sono innocenti, senza rumore
anche le macchine passano
nel silenzio della tua testa
sei qui, come una cosa sottratta
in questa calma di non appartenere…
Ripenso a Pierluigi, il poeta di Chiusaforte che ha saputo attraversare i confini delle lingue e dei mondi. La sua parola bilingue, perfetta nella duplice veste italiana e friulana, rappresentava un ponte tra culture, un modo per “cogliere la realtà seconda, invisibile allo sguardo normale”. Lui, poeta-sciamano capace di vedere a occhi chiusi, di attraversare i confini come fanno i sogni più veri.
… ho chiuso gli occhi e ho aperto la scorza del sogno
e nel bianco dei palmi la luna
era domestica, il mondo domestico
come la testa di un bambino senza vergogna.
In pace, chiudendo gli occhi per vedere…
Gli orli delle montagne che vedo ogni giorno dalla pianura assumono qui un significato diverso. Mi sovvengono gli orli dell’altopiano di Asiago, quelli descritti da Gadda quando rivedeva le montagne dove aveva combattuto la Grande Guerra, gli orli evocati da Meneghello mentre dalla sua Malo ripensava alla Resistenza vissuta tra queste vette insieme ai suoi “piccoli maestri”.
La luce di settembre filtra attraverso le nubi che oggi, proprio oggi, appaiono innocenti come scrive Pierluigi. C’è una purezza in questo momento che trascende il tempo e lo spazio, una calma che appartiene solo alle vette e ai cuori che sanno accoglierla.
Estraggo il blocco degli appunti dalla tasca e comincio ad abbozzare un disegno. La memoria mi restituisce un’immagine: una vecchia fotografia di Pierluigi Cappello, il suo volto illuminato dalla poesia. La matita scorre sulla carta bianca cercando di catturare non solo i lineamenti, ma quell’intensità dello sguardo che sapeva penetrare “nel centro delle cose, nel loro punto più profondo”.
Qui, seduto a questa quota dove l’aria si fa più sottile e i pensieri più limpidi, comprendo perché questo monte è considerato sacro. Non solo per il santuario del sedicesimo secolo che corona la vetta, meta di pellegrinaggi da tutto il mondo, ma per questa capacità che hanno le altitudini di restituirci a noi stessi, di farci “chiudere gli occhi per vedere” davvero.
Marco Crestani

Pierluigi Cappello è stato un poeta. Un grande poeta italiano nella brevità della sua vità. Ha scritto numerose opere sia in lingua italiana che in lingua friulana, rientrando a pieno diritto nell’omonima letteratura. Ha vinto il Premio Viareggio-Rèpaci 2010 per la poesia con la raccolta poetica Mandate a dire all’imperatore edito da Crocetti ma il suo lascito è enorme. E’ scomparso a solo cinquant’anni nel 2017.
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