di Michela Murgia
Alessandro De Roma è pericoloso nel modo subdolo in cui spesso lo sono i narratori di razza. Però è un uomo sincero, non ha mai finto di essere diverso, e infatti è dal primo libro che io dichiaratamente lo temo.
Ogni volta che esce un suo romanzo mi accosto in libreria con cautela, perché la sua scrittura ha il potere delle verità taciute, la forza di metterti davanti a quello che di te intorbidisce l’aria, l’acqua e il cuore. Non importa che questo scrittore abbia gli occhi limpidi e la faccia simpatica, con l’accento dolce del Guilcer a modulargli le parole tra i sorrisi. Quando scrive viene comunque fuori l’animo chirurgico dell’entomologo sulla mosca, lo scienziato che crocifigge il mondo al suo vetrino con la determinazione di chi cerca la sezione del suo stesso DNA.
E infatti eccoci di nuovo. Dopo il virtuoso Vita e morte di Ludovico Lauter e il modulatissimo La fine dei giorni, la scorsa settimana è uscito – ancora per il Maestrale – un romanzo intitolato Il primo passo nel bosco, un’altra storia costruita con il cesello, dove De Roma spacca la melagrana della trama per farne uscire i personaggi uno a uno, rossi e maturi come chicchi. Serafino e Amalia sono una coppia di coniugi grassi e benestanti, normali come sembriamo essere tutti, ma silenziosamente osceni d’animo. Lui è un commercialista cinico con una inclinazione al sadismo affettivo, lei è in apparenza la vittima perfetta, buona e ingenua, credente nel modo morboso in cui lo sono solo quelli che hanno strozzato le domande in culla per avere in cambio le risposte. Vivono nello Scoglio Fiorito, un mondo finto ai margini di Cagliari, ossimorico anche nel nome. Ce ne sono molti di questi fittizi rioni borghesi sulla strada per Pula e Chia. Hanno nomi come “La Residenza del Sole” e le villette con giardino tutte uguali che denunciano l’utopia di riprodurre nell’urbanistica la dinamica sociale del paesello da cui si è fuggiti per andare a lavorare nel grande centro urbano. Di queste quinte di cartapesta con l’orrore dentro ne aveva scritto l’anno scorso Giorgio Falco nel bellissimo L’ubicazione del bene, ambientato nell’hinterland milanese. De Roma ci mostra il profilo cagliaritano di questa inquietante Wisteria Lane, fatta di panadas e tziliccas fatte in casa e gatti trucidati, di gruppi di preghiera infiammati d’amore che reggono finzioni di normalità, di maternità sterili e sterilità materne che a tratti si confondono nelle mosse minimali di questo microcosmo malato. Ha il gusto di Carver per le piccole cose oscene dell’umanità, De Roma. Gli piace l’odio per la foglietta di prezzemolo che tra i denti dell’altro appare e scompare al rallentatore durante la masticazione; ama il disegno criminale che matura nei piccoli gesti quotidiani, la mano che al pranzo con i suoceri spappola l’ultimo bignè pur di non lasciarlo a nessun altro. Fa paura il mondo di Serafino e Amalia, perché ci si intravede dentro il confine impalpabile tra normalità e follia che segna anche i nostri perimetri. Questi due sono noi in pectore, sono nostra madre e nostro padre, sono i nostri vicini di casa, tutti gli Olindo e Rosa che ci camminano accanto in attesa dell’attimo fatale – il primo passo nel bosco – che volta la carta e costringe tutti a fare un gioco nuovo. Leggetelo questo libro. Si capisce benissimo che solo fino a un certo punto si può essere quel che si vuole. Poi si può essere solo quello che si è.
Leggetelo anche perché la scrittura di questo narratore è spietata, perfetta, senza cascami di maniera. E’ la scrittura che un lettore esigente e avido cerca tra gli scaffali in mezzo a mille delusioni patinate. Che bello trovarla, che meraviglia…
Copyright © 2010 Michela Murgia
la redazione di BookAvenue ringrazia l’Autrice