A chi conviene la legge sul libro

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Caro Direttore,

nei prossimi giorni verrà portata alla Camera la nuova legge che disciplinerà il prezzo del libro, ovvero che regolamenterà gli sconti. Siamo sicuri che ben pochi italiani, tediati dalle ricorrenti denunce sullo sconsolante panorama della lettura nel nostro Paese, avrebbero pensato che bastasse regolamentare uno sconto per risolvere tutti i problemi. Invece il legislatore esordisce così: “La presente legge ha per oggetto la disciplina del prezzo dei libri. Tale disciplina mira a contribuire allo sviluppo del settore librario, al sostegno della creatività letteraria, alla promozione del libro e della lettura, alla diffusione della cultura, alla tutela del pluralismo dell’informazione.” E dire che sono dieci anni che rincorriamo una legge civile sul libro, e per tutto questo tempo abbiamo avuto la soluzione sotto gli occhi. Già, peccato che a nostro avviso questo cappello introduttivo sia falso, e la legge vada nella direzione contraria a quanto proclama di voler ottenere.

La Legge Levi è molto breve: in pratica pone un tetto allo sconto che il libraio può fare all’acquirente finale del libro. Questo tetto è fissato al 15%. Vi sono alcune deroghe per le vendite on line (tetto del 20%), alle biblioteche o associazioni, ai libri fuori catalogo. E poi c’è un comma che permette agli editori di fare promozioni per 11 mesi all’anno (salvo dicembre e purché ciascuna non più lunga di un mese) su tutti i loro libri (vecchi e nuovi), senza alcun tetto di sconto. Ovvero un piccola clausola che di fatto vanifica qualsiasi tentativo di limitazione dello sconto, rivelando dunque che questa “disciplina del prezzo” è fittizia. A questo si aggiunge che i controlli e le sanzioni previsti paiono inefficaci.

Ma il colmo è che questa legge è stata redatta con l’accordo delle associazioni di categoria (AIE, Associazione Italiana Editori, e ALI, Associazione Librai Italiani), quindi viene fatta passare come una legge “voluta unanimemente da editori e librai”.

Ebbene, noi riteniamo che questo non sia vero, e ci auguriamo che gli editori e librai che la pensano come noi scrivano e chiamino il suo giornale a centinaia, per dire che questa unanimità non c’è, per manifestare la loro contrarietà a questa legge e per appoggiare la richiesta di una legge sul modello francese o tedesco (che spiegheremo brevemente più avanti).

La Legge Levi, di fatto, è voluta dai grandi gruppi editoriali, che sono gli unici che possono permettersi con continuità l’arma commerciale dello sconto elevato e vedono così sancito per legge questo loro privilegio, e dalle catene di librerie, che vi vedono un argine alla grande distribuzione, il loro principale concorrente. Questi sono argomenti piuttosto tecnici che non possono interessare il lettore (colui che compra e legge libri); se facciamo questa affermazione è per spiegare perché cinque di noi (il sesto non è socio), non sentendosi rappresentati dall’AIE, abbiano annunciato l’intenzione di uscire dall’associazione se l’AIE non chiederà di modificare il progetto di legge. E anche perché non vengano a dirci: ma siete voi editori e librai che l’avete voluta. Semplicemente non è vero.

Normalmente, quando si affronta il tema degli sconti, la prima obiezione che viene fatta è la seguente: siamo un Paese che legge poco, lo sconto è un incentivo all’acquisto del libro, dunque alla lettura; e poi sono tempi duri, perché vogliamo privare il consumatore (e di proposito non usiamo più il termine lettore) del vantaggio economico dello sconto? In altre parole la nostra sembra una posizione impopolare. Ma ai lettori attenti non sfuggirà che molto spesso un libro “molto scontato” finisce con il costare come un libro altrettanto buono di una casa editrice indipendente a prezzo pieno. Non di rado dunque lo sconto è uno specchietto. E poi… e poi è necessaria una breve divagazione sul libro.

Proviamo a fare qualche affermazione di principio: “Il libro è un bene fondamentale per la cultura, lo sviluppo, la democrazia, la circolazione delle idee e la realizzazione personale; sul libro si regge buona parte della formazione, dell’educazione, della comunicazione e del fermento culturale di una Nazione; per questo motivo deve esserne garantita la massima pluralità di produzione (case editrici) e diffusione (librerie indipendenti e di catena, edicole, grande distribuzione).

La comunità dei lettori (e di proposito non usiamo il termine mercato) deve premiare o punire l’editore e il libraio in base alla qualità del suo lavoro e non in base a fattori puramente economici e finanziari.

La legge dello Stato deve stabilire delle regole che, senza alterare indebitamente il mercato, assicurino pari opportunità a tutti gli operatori del settore, in modo che la forza economica e finanziaria di alcuni non possa nuocere od ostacolare gli altri a scapito della “bibliodiversità” (concetto mutuato dal termine biodiversità, che rende molto bene e in maniera sintetica un’importante esigenza culturale di una Nazione). Infatti a stabilire il valore di un libro deve essere la sua qualità e non il prezzo o lo sconto.”

Siamo tutti d’accordo su queste affermazioni? In fondo non sono così dissimili dal cappello introduttivo della legge. Se anche voi siete d’accordo, allora dobbiamo provare a spiegarvi, in maniera meno tecnica possibile, perché la Legge Levi vada nella direzione opposta.

È una questione dimensionale, sia per gli editori, sia per le librerie.

Nella composizione del costo del libro ci sono delle voci fisse (eventuale traduzione, lavoro redazionale, studio grafico della copertina e impaginazione, correzione bozze, preparazione delle lastre, avviamento della stampa e della confezione) che incidono molto su tirature basse e si riducono aritmeticamente con l’aumentare della tiratura. Se la tiratura raddoppia, queste voci incidono per la metà nella composizione del costo finale del prodotto. Questo significa che il margine di un editore è molto basso per una tiratura bassa e aumenta rapidamente al crescere della tiratura (nel caso di una tiratura bassa, l’editore potrebbe recuperare il margine aumentando il prezzo di copertina, ma questo metterebbe fuori mercato il suo libro). La conseguenza è che un editore piccolo o medio non ha la possibilità di utilizzare, se non in rari casi, l’arma commerciale dello sconto, perché rinuncerebbe a tutto o quasi il suo margine. La grande casa editrice, invece, avendo margini molto più ampi (in percentuale sul prezzo di copertina) può rinunciare a una parte del guadagno per mettere fuori causa la concorrenza.

Una piccola libreria, sui libri che acquista, ha normalmente uno sconto (che diventa il suo margine) che si aggira sul 28-30%. Una grande libreria, o una libreria di catena, ha uno sconto che può essere anche del 50% maggiore, e questo le dà la possibilità di preservare un certo margine anche applicando sconti importanti.

Quali le conseguenze, allora? Una legge che permetta sconti elevati mette a repentaglio l’esistenza degli editori e delle librerie di piccole dimensioni e dei libri a bassa tiratura, che costituiscono la stragrande maggioranza delle cinquanta o sessantamila novità che escono ogni anno. E se editori e librai cominceranno a chiudere, se libri anche importanti che non hanno un elevato potenziale di vendita non potranno più essere pubblicati, la cultura italiana continuerà a deteriorarsi.

Senza contare che questo orientamento commerciale svilisce il libro: invece di vendere contenuti (perché interessanti, divertenti, importanti, belli ecc.) si finisce sempre più spesso con il vendere prezzi di copertina scontati. A trasformare il lettore in consumatore.

Non sarebbe meglio se il lettore entrando in libreria si potesse concentrare solo e unicamente sui libri e i loro contenuti, invece di essere accalappiato dai cartellini dello sconto? Non sarebbe meglio se al lettore venisse data l’opportunità di confrontare il vero prezzo di copertina dei vari libri quando deve stabilire se e che cosa comprare?

I legislatori di Francia e Germania, Paesi dove si legge molto, ma molto di più che da noi e dove il libro non è l’eterno malato cronico delle nostre statistiche, hanno da anni preso atto di quanto raccontato in questa lettera e promulgato leggi che vietano (Germania) o riducono moltissimo (Francia) lo sconto sui libri usciti da meno di un paio di anni. Anche la regolamentazione delle promozioni è molto più restrittiva, e soprattutto ci sono organismi di controllo che verificano e sanzionano chi tenta gli escamotage. Il risultato è che in questi Paesi si legge di più, case editrici e librerie indipendenti riescono a stare sul mercato (in Germania ci sono 19.000 case editrici contro le 7000 italiane), la legge viene rispettata, i prezzi di copertina vengono calmierati dal mercato e i lettori sono educati a scegliere i libri per quel che contengono e non perché sono in offerta.

Si ha dunque la sensazione che in questi due Paesi il legislatore si sia preoccupato del bene culturale dei cittadini e non degli interessi di alcune lobby. Come mai in Italia questo non può avvenire? (La domanda è chiaramente retorica.)

Se la Legge Levi non dovesse passare, in che situazione ci troveremmo? In questo momento non ci sono praticamente regole, o meglio c’è una legge del 2001 che è stata vanificata da successivi decreti che hanno liberalizzato sconti e promozioni. Per questo motivo, anche parecchi librai ed editori indipendenti, pur convinti che la Legge Levi sia una brutta legge, pensano che sia meglio che nessuna legge, e che possa essere il punto di partenza per successivi miglioramenti.

Noi siamo convinti invece che si possa e si debba fare subito una buona legge, e che se la Legge Levi dovesse passare così com’è ce la terremo per altri dieci anni. Dunque invitiamo tutti, editori, librai, e perché no, lettori indipendenti che la pensano come noi a farsi sentire perché la Legge Levi venga modificata secondo i modelli che hanno dato così buoni risultati all’estero.

La ringraziamo per lo spazio che vorrà dedicarci.

Gaspare Bona (Instar Libri), Emilia Lodigiani e Pietro Biancardi (Iperborea), Marco Cassini e Daniele di Gennaro (minimum fax), Ginevra Bompiani e Roberta Einaudi (nottempo), Daniela Di Sora (Voland)

articolo apparso su Repubblica il 12 luglio

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