Intervista a Piergiorgio Bellocchio di Guido De Franceschi
Da più parti si intona il de profundis per la critica letteraria. Piergiorgio Bellocchio, che fu il fondatore dei celebri “Quaderni piacentini” e più tardi visse con Alfonso Berardinelli l’avventura semisolitaria della rivista letteraria “Diario”, sembra non ritenere necessario intonare la sua voce al coro. Complice parziale, forse, l’influenza che ne arrochisce la voce. Inutile, in definitiva, il lamento sulla critica nostrana quando è il suo stesso oggetto, la letteratura, a essere affetta da zoppia e a praticare il terra-terra. Quello di Bellocchio è suppergiù un chiamarsi fuori, un uscire dalle righe. Un guardare al passato, ma senza troppi drammi. In altre parole, un farsene, in qualche modo, una malinconica ma lucida ragione.
Secondo molti, la critica letteraria si è rinsecchita nel contingente dei quotidiani, nel breve volgere di due frasi, nella recensione o nella polemicuzza che dura lo spazio di un giorno o poco più.
Io ho un’opinione abbastanza negativa dello stato attuale della critica, ma non è che la pratichi un granché, né la frequento. Ci sono altri che la praticano effettivamente, io in realtà sono un po’ disoccupato in questo campo.
Un po’ appartato.
Penso a La Porta e a Berardinelli che hanno le mani in pasta e sicuramente sono più adatti di me a rispondere.
Quindi esiste ancora, secondo lei, una critica letteraria “vecchio stile”?
No, non esiste più. Che poi non è necessario che ci sia un “vecchio stile”. Ma non esiste neanche un “nuovo stile”. Voglio dire… siamo messi male, quello sì.
Siamo messi male.
Beh, sarebbe un discorso lungo.
Esiste una produzione libraria che dà spazio a una critica letteraria riflessiva e dotata di una certa ampiezza di analisi. Ma ha tutto un profumo di amarcord, di ricerca di magisteri che non ci sono più. A parte i suoi stessi libri, usciti ancora in anni recenti, si può pensare ai titoli di Cesare Garboli. Ma sembra un po’ una cosa rivolta ai bei tempi andati.
Beh, ma se il passato era meglio, in certi campi, non è il caso di…
Il passato era meglio?
Sì, ci sono delle cose del passato che erano migliori. Non è un problema di nostalgia o altro. Comunque, non ce ne sono più di Garboli, oggi. Il terreno non offre più. Perché esca un certo tipo di critica è necessario che ci sia anche una buona produzione. Dopodiché esce fuori anche l’eccezione. Ma la media è cattiva, è mediocre, e quindi è anche difficile che emerga l’eccezione.
E’ ormai difficile imbattersi in romanzi che non abbiano almeno una patina o un pretesto narrativo che li riconduca alla letteratura di genere, come se ci fosse bisogno di un’etichetta come di un’ancora. Lei che percezione ha di questo fenomeno?
Le dico la verità: non leggo romanzi. Do per scontato che non mi piacciano. Però, voglio dire, credo di non sbagliare
(Bellocchio lo dice ridendo con tutto quel po’ di gusto concesso dal mal di gola).
Preventiva diffidenza.
Insomma, cattiva critica, cattiva letteratura, cattiva poesia e anche cattiva arte. Cattiva politica, arrivo a dire. La mediocrità è il marchio dell’epoca.
Non è molto ottimista neppure sulla fonte primaria della critica, cioè sulla letteratura. La critica letteraria aiuta a creare un canone di classici per il futuro. Ma se non c’è una critica e, soprattutto, se non c’è un tessuto letterario sottostante che la permetta, allora forse non ci saranno classici di quest’epoca.
Ma ce ne sono tanti delle epoche precedenti.
Bisogna accontentarsi di quelli?
Epoche precedenti, molti secoli. Non pensa? No, comunque è una carenza. Se la letteratura è l’autocoscienza di un’epoca, il fatto che ci sia una cattiva letteratura vuole anche dire che scarseggia l’autocoscienza. Però quanto a valori abbiamo di che scialare. Abbiamo un’eredità.
Un’eredità.
Insomma, è meglio non sprecare l’eredità.