di Paola Manduca
Oggigiorno, tutti scrivono libri.
Una frase tormentone che corre da qualche tempo sulle bocche di quei pochi che, con ogni evidenza, non l’hanno ancora fatto. Ed è una frase che, a volerla contestualizzare, circola più dai parrucchieri che nei salotti, per due motivi. Il primo è che nei salotti il rischio di conoscere qualcuno che abbia dato alle stampe il suo preziosissimo manoscritto è più elevato, ed è consigliata prudenza. Il secondo è che dai parrucchieri si leggono giornali che, per quanto discutibili, danno il polso reale di quel che sta accadendo alla nostra società: comici, conduttrici di tg, attori, suore, tennisti, astronauti ma anche perfetti sconosciuti affidano al libro il volano della loro interiorità fino ad allora inespressa, e si lasciano recensire con la voluttà di una vergine ipocrita.
Tutti scrivono, dunque, e tutti leggono tutto, senza più quella necessità che fa della lettura un’iniziazione simultanea tra chi offre talento nel raccontare e chi, dall’altra parte, investe la propria fantasia nell’immaginare. Oggi si scrive perché l’autore ha “sentito il bisogno”, ma noi lettori, che bisogno abbiamo di leggere il buio che è calato su Walter Veltroni all’indomani della tragedia di Alfredino? Perché mai dovremmo assecondare la sbronza da fama di Agassi che lo spinge a mettere per iscritto la ricostruzione minuziosa dei suoi primi anni di vita al punto da volerla comprare versione tascabile?
Insomma, l’offerta aumenta e noi questuanti ci agitiamo, messi alle strette da una produzione scomposta e ininterrotta di stili inediti e capolavori postumi, senza naturalmente dimenticare il libro scritto dall’amico che ci tocca leggere e che prima o poi si aspetta la nostra recensione. Tanto noi, nel dubbio se essere onesti o solidali, saremo quasi sempre benevoli.
Come ovvia conseguenza di questa bulimia editoriale, i giudizi sui libri si sono ridotti alla velocità dei commenti cinematografici che rompono il silenzio delle sale a fine proiezione, quando inizia quell’articolata discussione tra amici che si potrebbe riassumere così: fico/no fico.
E in questo mare magnum sconnesso di titoli e aspirazioni, di outing ‘dolorosi ma necessari’ e di copertine via via sempre più didascaliche, anche la figura dell’editore viene meno, la figura di quel garante posto, con la nostra fiducia incondizionata, a vagliare per noi. Non solo tutti scrivono ma qualcuno arriva ad auto-pubblicarsi mediante quei siti che, dietro pagamento, stampano insieme al libro l’illusione di un nuovo “caso editoriale”.
Dove sta Bookavenue? In mezzo a questo casino, e con una soluzione da offrire. Noi leggiamo, vagliamo e segnaliamo le opere prime, nell’attesa propizia delle seconde. Perfetti sconosciuti che potrebbero diventare modesti noti grazie alla loro capacità di scrivere e alla nostra passione di seguirli. Al di fuori dai circuiti tradizionali e all’interno della rete, che rappresenta per noi la versione tecnologica del cosiddetto tam-tam.
Il Bookfestival non è altro che questo: due occhi, una notte insonne e quattro neuroni svegli, regalati a una mano.