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Margaret Forster, Lasciando il mondo fuori

1907. Alla fine di una sofferta storia d’amore con lo scultore Rodin, la pittrice inglese Gwen John regala all’amica Ursula la tela che aveva dipinto per lui. Ursula la smarrisce, ma questo piccolo e intimo quadro, raffigurante un angolo della mansarda di Gwen a Parigi, passerà nelle mani di sei donne, tutte legate dalla passione per l’arte e dal sottile filo del destino. Charlotte, un’aspirante artista che per il dipinto prova «un amore a prima vista». Stella, un’infermiera, che sarà costretta a venderlo per fuggire da una relazione soffocante. Lucasta, pittrice repressa che lo regalerà al suo amante Paul, che a sua volta ne farà dono alla moglie Ailsa.

 

Lettera aperta dei vincitori del Campiello alla Fondazione del Premio

La cinquina del Campiello 2010 ha spedito ieri una mail alla Fondazione Campiello in merito alla questione dell’epurazione dei libri dalle biblioteche, domandando una presa di posizione. La Fondazione ha risposto per bocca del presidente Andrea Tomat.

Carissima Alessandra, cari tutti e tutte della Fondazione,

per la stima che deriva dalla vostra conoscenza, vi immaginiamo imbarazzati da quel che sta succedendo a causa delle esternazioni dell’assessore alla cultura della provincia di Venezia Raffaele Speranzon in merito alla censura dalle biblioteche pubbliche di una cinquantina di scrittori sgraditi, perché firmatari nel 2004 di un appello per l’asilo a Battisti. Avrete saputo anche che, anziché smentirlo, il suo omologo regionale assessore Elena Donazzan intende persino scrivere ai presidi affinché tolgano i libri di quegli autori dalle biblioteche scolastiche. La sola idea che in un luogo come Venezia si possa chiedere di togliere dalle biblioteche scolastiche e cittadine i libri di Scarpa, Pennac, Wu Ming e decine di altri autori appare surreale, ma questo è.

Si sta come d’inverno i libri in biblioteca

Prosegue il racconto delle molte voci in risposta al bando degli autori dalle biblioteche venete.  

di Michela Murgia

È difficile farsi spazio tra le gambe nude di tutte le ragazze che affollano le cronache di questi giorni. Qualunque voce fatica a trovare ascolto in mezzo agli schiamazzi dei pupazzi ipnotizzati dalla fine senza dignità del loro anziano burattinaio.
Non c’è che una notizia da dare, ed è lui.
Non c’è che una storia da trasmettere, ed è la sua, dettaglio per dettaglio.
Il resto a pagina 32, se avanza posto.
È così che questo paese ha lasciato che Berlusconi diventasse il solo parametro del suo bene e del suo male, l’unica misura della sua indignazione o della sua assuefazione. Come stupirsi se i suoi problemi sono diventati nostri, o se le parole più familiari ce le siamo ritrovate davanti svuotate di senso e privatizzate sotto nuovo copyright?

Che facciamo?

Questo post lo hanno scritto i Wu Ming qui,e lo riportiamo anche noi.

Le parole più adatte alla circostanza le ha trovate Serge Quadruppani. Le abbiamo tradotte dal francese, eccole:«Di fronte all’imbecillità fascistoide, si resta come ammutoliti: l’idiota enormità di certe dichiarazioni potrebbe lasciarci senza voce. E’ una cosa talmente stupida che si ha soltanto voglia di alzare le spalle e pensare ad altro. Ma questa enormità e quest’idiozia hanno effetti molto concreti. Se si lascia diffondere la sola idea (per non parlare della prassi reale) che si possano ufficialmente compilare liste nere contro chi non cede alla dittatura della tristezza, chi non si adegua alla visione dominante di questo o quell’aspetto del passato, allora si capitola a una concezione della società più vicina a quella della Tunisia di Ben Ali che a quella sognata in Europa dagli illuministi e dalla Resistenza.
Per fortuna la storia recente dimostra che, a conti fatti, i piccoli e grandi Ben Ali non sempre sono vittoriosi.»

 

Dentro il baule delle meraviglie di Fernando Pessoa

Gli scritti di “La vita non basta” escono dal baule da matrimonio di Fernando Pessoa che conteneva oltre ventisettemila documenti acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Lisbona. In quello che è diventato un’autentica icona letteraria, Pessoa teneva le sue carte e quelle dei suoi doppi, Bernardo Saores, Alvaro de Campo, Ricardo Reis, Mário de Sá-Carneiro, Almada Negreiros, Armando Córtes-Rodriguez, Luis de Montalvor, Alfredo Pedro Guisado, ciascuno dotato di una propria storia e fisionomia indipendente. Per loro egli costruiva passati e presenti alternativi, progettava libri che non avrebbe mai scritto, inventava professioni prese dal mondo reale. Erano i cosidetti eteronimi, ossai gli autori fantasmi che non tanto cavava dal proprio interno, ma convocava a sé con «un tratto profondo d’isteria», per la sua tendenza organizzata e costante «alla spersonalizzazione e alla simulazione».

Charles Portis, che grinta, caballeros!

Nel secolo del mitico far west, nelle terre selvagge dell’Arkansas, al confine con lo sterminato Territorio Indiano –  rifugio di ladri di cavalli, rapinatori di treni e battelli a vapore, assassini bianchi e meticci braccati da feroci cacciatori di taglie – vive Mattie Ross, un’impertinente «mocciosa di quattordici anni… capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre».
Non più alta di un soldo di cacio, la Colt da dragone di suo padre nel sacchetto dello zucchero, Mattie si presenta un giorno al cospetto di un vecchiaccio con un occhio solo, un abito nero impolverato e un distintivo sul panciotto. È Reuben Cogburn, detto da tutti il Grinta… lo sceriffo più cattivo, duro e spietato che vi sia, uno che non sa che cosa sia la paura, l’uomo giusto, insomma, per scovare l’assassino del padre e restituirlo all’altrettanto dura legge del giudice Parker.

foto autore

Poco sindacale

foto autoredi Michela Murgia

Lo confesso proprio qui, come un punto di partenza: sono stata una lavoratrice precaria troppo a lungo per aver maturato con il sindacato un rapporto di reale fiducia. Gli organi tradizionali di rappresentanza non avevano cittadinanza nelle terre del lavoro invisibile dove camminavamo io e i miei colleghi: erano inesistenti laddove si perpetravano le vessazioni e ci apparivano troppo rigidi nelle strutture e nei metodi per potersi adattare al nostro pericolante equilibrio contrattuale. Noi, che stentavamo persino a confessarci l’un l’altro quanto quel modo di lavorare ci precarizzasse le scelte e i sogni, non avremmo mai concepito per noi stessi una rappresentanza sindacale: sarebbe equivalso a dire che qualcosa non andava, e la negazione del dissenso era parte non scritta del nostro contratto.