Perché dobbiamo aspettare l’ennesima tragica onda per fare in modo che l’Europa prima, e l’Onu poi, sollecitino i paesi ad aprire le loro frontiere agli immigrati apolidi?
Nelle ultime settimane, siamo stati “sollecitati” – mi si scusi l’uso grottesco del termine – dalle immagini di Aylan Kurdi, il bimbo di tre anni trovato morto sulla spiaggia in Turchia, causa la quale, il mondo è stato svegliato e scosso dal dolore di suo padre che ha perduto, in un sol colpo, la moglie e i fratelli del piccolo. La tragica fine di una famiglia scappata dalla morte in patria per trovarne un altra in mare.
Eppure, il mondo attraverso il commento dei media, ha saputo trovare una speranza per quell’area così martoriata. La morte di Aylan e della sua famiglia ha presentato il conto, tragico, dell’inadeguatezza dell’occidente che ha chiuso gli occhi davanti all’ennesimo dramma di questa parte di secolo. Secondo le organizzazioni internazionali che si occupano di emigrazione, nel solo 2015 più di 2600 persone sono morte annegate nel tentativo di attraversare il Mediterraneo.
Ancora. Nel solo mese di aprile 2015, leggo da Repubblica, 400 migranti, tra cui molti bambini, che cercavano di raggiungere la costa meridionale d’Italia su uno dei barconi, sono annegati lo stesso giorno in cui hanno lasciato le coste della Libia. Si è saputo solo perché ci sono stati alcuni superstiti che ne hanno riferito la tragedia.
Può bastare? A settembre, 200 persone provenienti dai paesi di area sub-sahariana, Siria e Marocco sono morti annegati al largo delle coste della Libia, ancora una volta, cercando di fuggire dalla/e guerre e dalla fame nei loro paesi. Gli “itinerari” terrestri hanno dimostrato di essere pericolosi allo stesso modo. Nel conto, ci sono anche i settantuno profughi soffocati nel retro di un camion sigillato mentre cercavano di attraversare l’Austria. Quattro bambini sono stati trovati tra i loro corpi, tra cui una bimba di età presumibile inferiore ai due anni. Per non parlare di quel kurdo assassinato per sbaglio dalle guardie di frontiera ungheresi.
Il tragico destino di Aylan sembra essere diventata “la” notizia, perché induce un evidente urto nella coscienza collettiva e compassione tra il pubblico, spingendo, però, a un’ulteriore copertura mediatica sul modo orribile in cui il ragazzino ha trovato la morte. La pornografia televisiva esiste, non è un’invenzione di chi vi si oppone. Guy Debord si ammazzato per questo. E tuttavia sembra essere un metodo assai efficace per la richiesta a vari stati riluttanti ad assumersi responsabilità e dare disposizioni in fatto di accoglienza per le ondate d’immigrati che appaiono sulle coste europee e, via terra, ai confini nazionali. Anche il Comitato internazionale per i rifugiati ha tirato un sospiro di sollievo quando la Commissione europea svegliandosi dal suo colpevole sonno ha fatto finalmente qualcosa prima che le emozioni innescate dalle fotografie del bimbo sulla spiaggia sbiadissero.
Dobbiamo nasconderci dietro l’empatia dettata dall’ennesima tragedia perché le nazioni europee (e, pure, l’America settentrionale) riconoscano i loro obblighi di accogliere le persone apolidi? C’è qualcosa di molto fastidioso su questa formulazione della crisi. Mentre l’empatia è un elemento importante delle relazioni umane, è, a ben vedere, un “povero” fondamentale per la politica internazionale. Una vergogna.
La situazione degli apolidi è di lunga data, che non sarà risolta con un momento di compassione. L’empatia difficilmente proteggerà i migranti apolidi che hanno perso quello che (la filosofa) Hannah Arendt chiamava nel 1951 il “diritto ad avere diritti”.
In numeri puri, la situazione dei rifugiati oggi è parallela allo “spostamento” nel secondo dopoguerra di milioni di persone. Oggi, più di quattro milioni di persone sono state sfollate dalla sola Siria, e il numero totale dei migranti che hanno varcato i Confini dell’Europa orientale nei primi cinque mesi del 2015 è stimato a 153.000 (fonte: Limes). La Germania con un’abile operazione di marketing politico ha prima anticipato di voler accogliere 800.000 rifugiati entro la fine del 2015 poi ha fatto marcia indietro. Mi si dica se non è pornografia anche questa!
La richiesta “dal basso” (intesa come: ricorsi alla corte di giustizia europea dei diritti dell’uomo e documenti d’intervento immediato inviati all’ONU da movimenti di cittadinanza attiva, partiti politici di opposizione, movimenti giovanili e istituzioni non governative) di politiche basate sull’urgenza di aiuto mossa dalla solidarietà verso rifugiati sostituiscono le approfondite analisi e possibile soluzione della crisi attuale offerta da alcuni paesi dell’est Europa. Voglio credere che in sede d’impugnazione dei diritti umani, la dignità delle persone – di queste persone – vincerà sopra le azioni più vili che si nascondono dietro la presa di posizione (e perdita di tempo) che questi paesi, in specie l’Ungheria che ha nel frattempo costruito un muro di filo spinato e, spiace dirlo, l’Austria, stanno attuando. Tuttavia, la lista dei paesi dimentichi delle loro origini e della loro sopravvivenza proprio grazie all’Europa, si allunga di settimana in settimana. Non è un caso, la vittoria in Polonia della destra xenofoba. Né i fenomeni da baraccone francese e italiano: si chiamano Le Pen e Salvini.
Come fa notare la Arendt in “Noi rifugiati” (“scaricabile”, in fondo all’articolo), tali ricorsi, però, si basano su un astratta idoneità a fornire protezioni per i più vulnerabili tra noi, indipendentemente dallo stato di cittadinanza. Se gli europei credevano nei diritti fondamentali dell’uomo prima di due guerre mondiali fa, l’arrivo delle persone apolidi nella metà del XX secolo , pose fine a questa illusione. Descrivendo apolidia come “il nuovo fenomeno di massa nella storia contemporanea”, Hannah Arendt ha denunciato la” discrepanza tra gli sforzi idealisti dei benintenzionati a invocare inalienabili diritti umani e la situazione dei senza diritti stessi. La filosofa riflette sulla situazione delle minoranze e dei rifugiati, sfollati dalle loro terre da eventi catastrofici che hanno lasciato milioni d’indesiderati, non riconosciuti e non protetti sia dai governi dei loro paesi d’origine che dalle nazioni che avevano firmato i trattati promettendo di accoglierli nei loro confini. Lei per prima, nel ’41, esule ebrea perseguitata, sbarcò a New York da Lisbona dove per mesi, come migliaia di profughi dell’epoca, attese di ricevere il visto che significava vita e libertà.
Proprio perché i nostri diritti umani sono assicurati dal fatto che apparteniamo a uno stato-nazione, per dirla con Hobsbawn, la nostra responsabilità verso gli apolidi deriva da questo. Spetta a noi come popolo spingere i governi a intensificare e adempiere i loro obblighi nei confronti dei profughi non attraverso un ennesimo astratto proclama, ma con un rinnovato e condiviso patto tra le nostre nazioni. Senza aspettare la prossima onda perfetta con il suo carico di morti per farci balzare all’azione. Con buona pace di Salvini.
per BookAvenue, Michele Genchi
I libri:
Le origini del totalitarismo, è pubblicato da Einaudi
Antologia. Pensiero, azione e critica al tempo dei totalitarismi, è pubblicato da Feltrinelli
Noi profughi, è possibile scaricarlo in basso nella finestra di download