Per la serie ‘a volte ritornano’, ogni tanto accade che disegni di legge, regolamenti e proposte riguardanti aspetti generali o particolari del libro e della lettura risalgano dal limbo in cui erano finiti. In genere, aspettano lì per l’eternità e, pur considerando il prolungamento dell’età media degli italiani, l’eternità è un tempo troppo lungo anche per i longevi dotati di grande pazienza. Però, capita a volte che qualcosa si muova. Adesso è toccato al disegno di legge n. 1257 sulla ‘Nuova disciplina del prezzo dei libri’, che è stato presentato il 5 giugno 2008 per iniziativa di Ricardo Franco-Levi e di altri sedici deputati e che oggi – come anticipava lunedì Simonetta Fiori su ‘La Repubblica’ – arriva alla Camera.
La sostanza di questo disegno di legge è di realizzare un non facile compromesso tra posizioni diverse: da un lato, si mette in soffitto quella che allora era stata ventilata come liberalizzazione dei prezzi (che non avrebbe alcun effetto correttivo e benefico sul mercato); dall’altro, si concede la possibilità di praticare uno sconto fino a una percentuale massima del 15% sul prezzo fissato in copertina dall’editore. È bene ricordare che la Commissione nazionale del libro, costituita nel 1997 dal ministro per i Beni culturali Walter Veltroni, già aveva sollevato il problema della regolamentazione del prezzo del libro e ne aveva presentato le conclusioni alla conferenza nazionale svoltasi a Torino (20-21 novembre 1997). Si era a quel tempo convenuto nell’apposito gruppo di lavoro che la norma prevista del prezzo fisso era una misura necessaria, sia per garantire un’equa concorrenza fra canali distributivi diversi, sia per assicurare il pluralismo dell’offerta editoriale, anche per i titoli a bassa rotazione. Si era anche d’accordo sul fatto che, pur evitando di penalizzare i canali e i punti vendita in grado di praticare sconti maggiori, un eccessivo abbassamento del prezzo di vendita al pubblico avrebbe comportato delle conseguenze negative sul mercato e in particolare sulla libreria. Nel gruppo di lavoro si era raggiunta una posizione univoca soltanto in riferimento al massimo sconto possibile: l’Associazione librai italiani e l’Associazione italiana piccoli editori erano per un tetto massimo del 10%; l’Associazione italiana editori per il 20%. Come si vede, l’accordo attuale del 15% è una via di mezzo tra le posizioni di allora. Con queste prime tre eccezioni: lo sconto del 15% può essere alzato al 20% in occasione di «manifestazioni di particolare rilevanza internazionale, nazionale, regionale e locale» (cioè tutte); a favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale, istituti, centri, biblioteche, musei, scuole, università (cioè tutti), e infine quando i libri siano venduti per corrispondenza o nell’ambito di attività di commercio elettronico. Ma ci sono anche numerose altre eccezioni (incluse le campagne promozionali) che possono rendere, di fatto, lo sconto un po’ più flessibile di quanto si vorrebbe. Se questo accadesse, si può obiettivamente creare qualche problema nei piccoli editori e librai, molti dei quali, infatti, si oppongono al disegno di legge in Parlamento. Non bisogna tuttavia dimenticare quanto sono cambiati in questi anni il mercato, i comportamenti d’acquisto, i canali distributivi e promozionali, perché questo aiuterebbe a inquadrare il problema senza eccessive chiusure.
di Giuliano Vigini, pubblicato su Avvenire il 14 Luglio
Vigini, per carità, è una vita che si occupa di queste cose. Ma si mostra un po’ troppo prudente.
Ribadisco: in questi anni di sconti selvaggi i tassi di lettura non sono aumentati (cioè non ci sono incrementi di nuovi lettori). Mentre i fatturati, sì.
Allora, la domanda è: vogliamo arricchire i lettori garantendo una bibliodiversità oppure preferiamo difendere i (grandi) imprenditori e i loro fatturati?