Ignazio Marino, medico, senatore, candidato alla segreteria del Pd, mandato in libreria da Einaudi
Pubblichiamo un estratto sul tema del testamento biologico dal capitolo
intitolato “Che cosa ne pensano gli italiani?”.
Dal 2006 ad oggi, ovvero da quando ho iniziato a dedicare parte del mio tempo allo studio del testamento biologico, ho seguito con attenzione l’orientamento degli italiani attraverso numerose ricerche e indagini demoscopiche, realizzate tra la popolazione in generale ma anche all’interno di gruppi di persone selezionate sulla base della loro professione, religione, appartenenza geografica, livello sociale e culturale. Vi è un dato che rimane costante nel tempo e che risulta sempre identico in tutte le indagini: la stragrande maggioranza degli italiani è convinta che le decisioni su come affrontare le terapie nelle ultime fasi della vita debbano spettare all’individuo, a nessun altro. I cittadini conoscono bene i termini della questione, sono consapevoli dei propri diritti e non intendono rinunciarvi.
Per capire meglio può essere utile qualche dettaglio. In un’indagine realizzata alla fine del 2006 dall’istituto Eurispes, le persone che si dichiaravano a favore di una legge sul testamento biologico erano il 74,7 per cento: tre italiani su quattro. Ma un dato molto significativo era che l’85 per cento degli intervistati confermava di conoscere bene l’argomento, compresa la differenza tra eutanasia e testamento biologico. In quel periodo certamente la vicenda di Piergiorgio Welby aveva contribuito ad aumentare la sensibilità dell’opinione pubblica, ma l’approfondita conoscenza del tema in discussione è comunque molto rassicurante; la fine della vita riguarda ognuno di noi e forse semplicemente per questo motivo le persone si sentono coinvolte.
Tre anni più tardi, in seguito alla morte di Eluana Englaro, un sondaggio condotto dall’istituto Ispo e pubblicato sul «Corriere della Sera» del 1° aprile 2009 ha riportato dati praticamente sovrapponibili: Tre italiani su quattro auspicano la possibilità di richiedere liberamente, nel testamento biologico, l’interruzione delle cure qualora si trovassero in una situazione di coma irreversibile. Questa opinione risulta più diffusa tra chi si dichiara laico, ma coinvolge anche il 55 per cento – vale a dire la maggioranza assoluta – di chi si professa credente e frequenta regolarmente le funzioni religiose. Anche sull’aspetto più spinoso del dibattito, la possibilità di interrompere la nutrizione e l’idratazione artificiali, il 68 per cento auspica di poter decidere liberamente in merito, nel testamento biologico.
L’atteggiamento è davvero chiaro e non ci sarebbe nemmeno bisogno di sondaggi, basterebbe osservare che cosa è accaduto su Internet all’inizio del 2009: circa 300.000 persone hanno sottoscritto un appello per la libertà di cura proposto dalla società civile sul sito www.appellotestamentobiologico.it e su Facebook sono nati gruppi a cui hanno aderito centinaia di migliaia di persone. C’è chi lascia il proprio testamento biologico su YouTube, chi lo deposita dal notaio o in registri organizzati nei comuni di alcune città. In questi anni sono state convocate in tutt’Italia migliaia di iniziative pubbliche grandi e piccole, promosse da associazioni di cittadini, dai sindacati, dai partiti, dagli ordini dei medici, dalle università, da centri studi, dai licei, dalle parrocchie. È fiorito un filone culturale interessante sul tema con la messa in scena di spettacoli teatrali, film, la pubblicazione di numerosi libri scritti da medici, pazienti, politici e giornalisti. È evidente che la stragrande maggioranza degli italiani ha avuto modo di informarsi e di riflettere almeno una volta sulla fine della propria vita e di farsi un’opinione al riguardo.
Avendo partecipato a oltre cento dibattiti in giro per l’Italia, ho ascoltato le voci dei cittadini e le loro storie come quella di Antonio, ammalato di un tumore che lo sta divorando e già operato tante volte ma ormai senza speranza. Per non correre il rischio di essere attaccato alle macchine una volta persa conoscenza, si è appeso al collo una targhetta con inciso a chiare lettere: «Non rianimatemi». Oppure la storia di Giovanna, della provincia di Varese, che vorrebbe aiutare lo zio in stato vegetativo da tre anni ma, non avendo sostegno dalla Regione Lombardia, né un posto letto in una struttura specializzata, si vede costretta a vendere l’antico casolare dei nonni per poter pagare la retta di una casa di riposo che ospiterà lo zio fino alla fine dei suoi giorni. Ovunque ho ascoltato sempre le stesse critiche: la politica non ascolta le persone, scrive spesso le leggi senza conoscere la realtà, non si accorge di quali siano i problemi veri, non capisce le ansie di chi ha un parente con una malattia degenerativa e vive in una regione dove manca l’assistenza, non comprende che cosa significa convivere con la sofferenza.
Questa maledetta e vituperata politica che non ascolta, la politica che non piace, anzi, verso cui si prova una sorta di repulsione e totale sfiducia. Eppure la politica può fare molto, può risolvere grandi problemi con un po’ di umiltà e ponendosi come primo impegno il bene collettivo e il miglioramento generale delle condizioni dei cittadini di un paese.
Il testamento biologico visto dall’ottica del cittadino e quello visto dall’ottica del Parlamento sono due cose diverse. Da una parte c’è chi chiede solo rispetto dei diritti e della libertà, dall’altra un mondo politico avvitato su se stesso che utilizza qualunque mezzo, in questo caso la legge, come un’arma da scagliare contro l’avversario di partito, oppure come uno strumento per assecondare le pressioni di una parte della chiesa. Certamente ai vescovi e ai religiosi in generale spetta l’arduo compito di formare le coscienze, di parlare alle menti e al cuore delle persone con il messaggio universale di salvezza, chiedendo etica nei comportamenti e nello stile di vita. Ma se alcuni politici pensano di sostituirsi ai vescovi e di imporre l’etica di una religione attraverso le leggi dello Stato, forse hanno sbagliato mestiere e tradiscono il loro mandato. Fu esplicito su questo punto Aldo Moro in molte occasioni, compreso il suo intervento al Congresso della Democrazia cristiana del 1962:
Così grande è l’impegno, anche perché vi sono tali remore e riserve, anche per non impegnare in una vicenda estremamente difficile e rischiosa l’autorità spirituale della Chiesa, c’è l’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica, chiamati a vivere il libero confronto della vita democratica in un contatto senza discriminazioni.
L’autonomia è la nostra assunzione di responsabilità, è il nostro correre da soli il nostro rischio, è il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se è possibile, una testimonianza ai valori cristiani nella vita sociale.