Il libro di Sergio Luzzatto sul partigiano Primo Levi e l’uccisione da parte della sua banda di due compagni, è diventato un cold case: dalla lettera alla Stampa dei parenti di una delle vittime i motivi dell’omicidio sembrano diversi da quelli ipotizzati dall’autore di Partigia. Pretendere di capire attraverso l’esperienza individuale di Primo Levi la “zona grigia” della Resistenza o “guerra civile” del ’43-’45 è un’impresa bizzarra per uno storico. Il fuoco amico è frequente in guerra e, quindi anche in formazioni armate politicamente e culturalmente eterogenee, in qualsiasi tempo e luogo. Nelle bande partigiane vi furono conflitti di ogni tipo, rese dei conti, omicidi, etc., e concentrare tutta l’attenzione su Primo Levi per spiegare questi fenomeni è piuttosto singolare.
Primo Levi scrisse della breve esperienza partigiana, dell’uccisione dei due compagni e di desiderare dimenticare. Vi sono prove chiare: “Eravamo stati costretti dalla nostra coscienza ad eseguire una condanna, e l’avevamo eseguita, ma ne eravamo usciti distrutti, destituiti, desiderosi che tutto finisse e di finire noi stessi; ma desiderosi anche di vederci fra noi, di parlarci, di aiutarci a vicenda ad esorcizzare quella memoria ancora così recente” e “Il mio periodo partigiano in Valle d’Aosta è stato senza dubbio il più opaco della mia carriera, e non lo racconterei volentieri: è una storia di giovani ben intenzionati ma sciocchi, e sta bene fra le cose dimenticate. Bastano e avanzano i cenni contenuti nel Sistema periodico”. Luzzatto non si spiega “l’avarizia narrativa” di Levi e scrive di non essere mai stato tanto travagliato quanto in questa indagine per scoprire i motivi del silenzio di Levi e dell’eliminazione dei due ragazzi, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, freddati alle spalle.
I motivi dell’uccisione sembrano banali a Luzzatto, avrebbero vessato i valligiani con richieste di cibo, legna, richieste di denaro, etc. I valligiani, da parte loro, avrebbero imposto agli ebrei sfollati come Levi tariffe da strozzini e, per queste ragioni, insieme a un’ordinanza della Repubblica sociale ulteriormente restrittiva per gli ebrei, Levi avrebbe deciso di unirsi ai partigiani. Nel dopoguerra i due ragazzi uccisi sarebbero diventati eroi della Resistenza uccisi dai fascisti, mentre Levi nel dicembre ‘43 sarebbe stato arrestato e trasferito a Auschwitz da un prefetto ritenuto inizialmente antisemita da Luzzatto, ma poi sottratto alla condanna nel dopoguerra da una famiglia ebrea per avere salvato il figlio partigiano dalla fucilazione. Sergio Luzzatto sembra sempre stupito, ma gli uomini e le donne non sono lineari, trasparenti e prevedibili in generale e ancora meno lo sono in guerra. Non solo in Italia, dovunque.
Durante la guerra civile inglese, una vera guerra civile, a differenza di quella italiana, prima del ritorno di Carlo II Stuart vi furono numerosi cambi di casacca: i più potenti e importanti ebbero titoli nobiliari e rendite, altri personaggi minori finirono peggio. Il grande poeta John Donne, con la madre parente di Thomas More, dopo la congiura delle polveri per convincere i pochi cattolici rimasti in Inghilterra che non tradivano la loro religione a giurare fedeltà a Giacomo I Stuart scrisse un pamphlet e per convertirsi all’anglicanesimo ebbe bisogno della ricompensa di una carica. Questo non diminuisce la grandezza poetica e la sensibilità di John Donne. Forse proprio i tanti cambiamenti di parte della prima e la seconda guerra civile inglese indussero Locke e Hume a una teoria dell’identità personale fragile e discontinua. Avendo eliminato ogni sostanza metafisica e materiale qualificabile come anima o coscienza, Locke individua nella memoria il filo che mette in relazione le diverse fasi dell’esistenza, ma il filo della memoria è fragile. Per Locke “ripitturiamo” più volte i nostri ricordi, come si fa con i muri di una stanza, e quindi le nostre identità sono costruite. Per Hume la memoria è piena di buchi e discontinua, l’identità è qualcosa di fittizio: gli stati di coscienza di un individuo cambiano continuamente come i cittadini di una repubblica, pur rimanendo la repubblica la stessa. L’identità non ha un nucleo fisso dunque, si costruisce e si cambia attraverso le relazioni con gli altri, perché il problema dell’identità si pone sempre in rapporto agli altri e alle diverse relazioni che intratteniamo con gli altri, secondo i diversi contesti. Per questo, per il filosofo scozzese abbiamo identità plurime.
Questa concezione dell’identità personale, diversa dalla tradizione tedesca di Kant e Fichte e da quella della coscienza ebraico-cristiana, spiega contraddizioni o incoerenze che Luzzatto non riesce ad accettare. Gli uomini e le donne non sono perfetti e i loro comportamenti non sono lineari e chiari. Il linguaggio complica ulteriormente la comprensione dei motivi per i quali dichiarano di agire. Freud non si fidava di chi parlava a telefono: uno sguardo, un apparentemente irrilevante movimento delle labbra o di un muscolo del volto è in genere più eloquente di un lungo discorso o di una lettera. La scrittura è una costruzione linguistica complessa e capire cosa passa davvero per la testa a un autore quando scrive è un’impresa difficile, come sostiene Quentin Skinner che ha rinnovato la storia della filosofia politica sotto l’influenza del filosofo del linguaggio John Austin e invita piuttosto a studiare i contesti storici nei quali un grande autore, un classico, scrive e, soprattutto, i successivi utilizzi da parte di minori delle sue opere in contesti cronologici, sociali, politici, culturali diversi.
Nel mondo angloamericano si parla di retoriche politiche, storiografiche, letterarie, mediatiche, cinematografiche, etc. Da noi si parla di “vulgata resistenziale”, ma si potrebbe usare anche l’espressione retorica resistenziale, un termine più adeguato, utilizzabile in senso aristotelico per ogni tipo di narrazione. Se studiamo i contesti storici, possiamo comprendere perché Levi abbia preferito non dare ampio spazio all’avventura partigiana e dimenticarla, mentre si dedicò alla stesura di Se questo è un uomo che desiderava pubblicare da Einaudi nel ’47. Difficilmente Einaudi avrebbe accettato di prendere in considerazione un autore, se avesse scritto di partigiani che uccidevano compagni. Ancora oggi è l’argomento tabù. Pubblicato da una piccola casa editrice, il libro non ebbe un successo di vendite e fu pubblicato da Einaudi solo undici anni dopo, mentre come scrittore Levi cominciò a essere preso in considerazione dalla critica solo negli anni ’80, fino a diventare poi una specie di santo laico. Senza la lunga recensione positiva di Paolo Mieli sul Corriere e le polemiche di Gad Lerner, che addirittura rivendica la giustizia dell’uccisione dei due ragazzi, di cui si sa ben poco, il libro di quasi 400 pagine di Luzzatto forse sarebbe passato inosservato. Mieli apprezza Luzzatto anche per il rispetto nei confronti di Pansa per il Sangue dei vinti: “Una mano tesa. Un modo di (provare a) superare gli schieramenti che da oltre dieci anni si sono creati sui modi di raccontare quel che accadde dopo il 25 aprile”. Per Luzzatto sembra valida la teoria di Hume: nel 2004 Roberto Vivarelli, autorevole e rigoroso storico del fascismo, pubblicò un libricino nel quale raccontava l’esperienza di giovane volontario saloino, provocata soprattutto dalla morte del padre ucciso dai partigiani di Tito. La fine di una stagione, non aveva alcun rapporto con il mestiere di storico di Vivarelli, derivava dal bisogno di raccontare una parte della vita occultata per decenni: aveva provato ad accennarne in un articolo su una rivista storica ed era stato subito messo a tacere da un altro articolo in cui si parlava di “anime morte”. Vivarelli non rivolgeva inviti a pacificazioni nazionali, né a memorie condivise, raccontava la sua esperienza. Luzzatto, come un discendente della gentry ottocentesca, l’attaccò con arroganza esaltata : “assurdo pretendere di versare il sangue di mio nonno, di mio padre, o di qualunque altro ebreo fortunosamente scampato alla Soluzione finale, nell’improbabile calderone di un sangue dei vincitori in tutto e per tutto distinto da sangue dei vinti”. L’Italia di De Gasperi e di Togliatti – continuava indignato – era infatti piena di ex fascisti, come la Francia di De Gaulle era piena di ex vichyssois.
Singolare ragionamento per uno storico, che dovrebbe sapere che il fenomeno del trasformismo è inevitabile quando crolla uno Stato: non si sa chi avrebbe avuto il diritto di cittadinanza in Italia se quasi tutti erano stati fascisti, tranne, si presume, suo nonno, che non riebbe la cattedra nell’Italia repubblicana, e suo padre, anche se per accedere a ogni impiego pubblico era necessaria la tessera. Molti ebrei sopravvissuti erano stati volenterosi fascisti, da famiglie ebree con ruoli rilevanti nel regime provengono giovani ebrei partigiani, come pure troviamo ebrei fedeli al regime anche dopo le leggi razziali. Gli ebrei italiani, una comunità esigua, avevano partecipato con entusiasmo al Risorgimento, avevano fatto la prima guerra mondiale, e molti di essi erano diventati fascisti, più o meno per gli stessi motivi degli italiani. Da qualche tempo, Luzzatto, però, ha cominciato ad avanzare dubbi e riserve sugli ebrei, responsabili, pur essendo integrati pienamente nel Regno d’Italia, di avere continuato ad avere ossessioni settarie, come l’avversione ai matrimoni misti, la pratica della circoncisione e strani rituali. Poi ha ripreso la tesi del libro sull’ebraismo virtuale di Ariel Toaff del 2008, per il quale la Shoah avrebbe oscurato l’ebraismo reale e trasformato gli ebrei in un popolo ossessionato dallo Stato di Israele, governato da una destra nazionalista e ostaggio delle destre occidentali. La Shoah è ormai parte della storia occidentale e per quanto riguarda Israele, il problema di Israele è semmai che dal 2008 Obama ha completamente cambiato la politica americana in Medio Oriente, non più centrata su Israele, come alleato principale, come durante la guerra fredda e l’amministrazione Bush, ma su monarchie assolute come il Qatar e l’Arabia saudita con le quali gli Stati Uniti tentano di recuperare i paesi che ruotavano e ruotano nell’orbita russa, con guerre e ribellioni armate portate avanti anche da jihadisti, un tempo condannati come al qaedisti, coltivando il progetto di un impero neo-ottomano.
Samantha Power, paladina dei diritti umani contro i genocidi, una figura chiave della politica estera di Obama in Medio Oriente, ora incaricata di rappresentare gli Stati Uniti all’Onu, propone di sospendere gli aiuti militari a Israele, di investire miliardi di dollari in Palestina e d’invadere Israele per impedire il genocidio palestinese, anche se queste decisioni potrebbero provocare la reazione della Israel lobby e la fuga di capitali ebraici. Poiché gli Stati cambiano politica estera in funzione degli interessi, Israele corre il rischio di restare isolata e il problema è magari invitare i governanti israeliani a una politica diversa, riprendere il progetto Rabin, allacciare nuove alleanze. Queste preoccupazioni si riflettono indirettamente in un articolo del Sole 24 ore del 3 febbraio 2013, intitolato Estremismo ebraico, una recensione a un libro di Enzo Traverso. Luzzatto è condivisibile su alcune osservazioni come il fatto che non ha senso considerare Ahmadinejad l’erede di Hitler o nipotini di Himmler i fondamentalisti islamici delle banlieue. Come abbiamo visto, però, a Woolwich di recente, col jiahdista britannico di origine nigeriana, un ragazzo della classe media, cristiano convertito all’Islam, che ha sgozzato il tamburino inglese, il groviglio è più complicato. Luzzatto è fallace quando considera Israele uno Stato voluto dalle destre occidentali od ostaggio delle destre occidentali. Il sionismo, com’è noto, è un movimento nato sull’onda del nazionalismo moderno a fine Ottocento all’interno dell’ebraismo, appoggiato da un premier come Disraeli che non distingueva tra Londra e Gerusalemme, come pure da Bismarck e rifletteva il desiderio ebraico di uno Stato nazionale e non per dogmi religiosi, ma per ragioni pratiche.
Come ricorda Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo nel capitolo dedicato alla corsa all’Africa degli europei nell’Ottocento, in Africa andarono anche gli ebrei a fare affari e si trovarono svantaggiati proprio perché, a differenza di inglesi, tedeschi o belgi, non avevano alle spalle uno Stato, né un esercito. Né è sostenibile la tesi di Luzzatto che l’ebraismo sia moderno perché estremista, costituisca l’intelligenza critica, estremista, senza Dio e senza frontiere. Cita Einstein, Freud, Kafka come esempi, ma non si capisce cosa abbiano in comune con Rosa Luxemburg e Trotsky. Certamente, un grosso numero di ebrei fu rivoluzionario e bolscevico, ma una gran parte di ebrei era anche nel campo capitalista, tra gli industriali, i finanzieri e i banchieri, con annessi intellettuali e giornalisti. L’idea del complotto ebraico nasce in Europa proprio dal fatto che gli ebrei erano sia nel campo capitalista, sia nel campo rivoluzionario. Di questo problema sono consapevoli i sionisti che premono sui governi europei per il focolare in Palestina. Con la dichiarazione di Balfour del 1917, in merito alla spartizione dell’impero Ottomano, il ministro degli esteri Balfour scrisse a Lord Rothschild, referente del sionismo della decisione del governo della creazione di un focolare ebraico in Palestina, assegnata alla Gran Bretagna. I primi a preoccuparsi della presenza di molti ebrei tra i bolscevichi in Russia e Ungheria furono i giornali inglesi. Israele non è la fine della modernità ebraica e l’inizio della conservazione dogmatica con uno Stato nazionalista e confessionale. Nasce nel 1948 addirittura come un esperimento socialista. Il problema di gran parte degli ebrei – come constatò Hannah Arendt che da studentessa partecipò a riunioni sioniste – era invece essere normali. Arendt smise di frequentare le riunioni sioniste, perché riteneva che gli ebrei potessero essere normali nei paesi in cui vivevano, senza andare in Palestina a costruire lo Stato ebraico. Però Arendt, come alcuni milioni di ebrei, emigrò negli Stati Uniti.
C’erano state le leggi razziali tedesche e poi quelle italiane prima della seconda guerra mondiale e dei campi di concentramento. La Shoah provocò la rottura non solo con Germania e Italia, ma con l’Europa che si divise in due per ben due volte nel ’39-45 e durante la prima fase i governi europei filotedeschi deportarono gli ebrei, come in Francia e in Olanda. Gli ebrei che fondarono Israele volevano essere normali: essere normali non è facile, soprattutto non è facile imparare l’arte di essere uno Stato, ma s’impara. Forse si capisce meglio Partigia, tenendo conto dell’articolo sull’estremismo ebraico, con l’accenno a Israele regredita nello Stato confessionale nazionalista e all’Europa cambiata, diventata laica e sovranazionale dalla quale gli ebrei sono fuggiti. La Francia di Hollande, però, come quella di Sarkozy e la Gran Bretagna sono alleate degli Stati Uniti nel progetto del nuovo impero ottomano. Insomma, Partigia va letto tenendo conto anche delle preoccupazioni per Israele e l’ebraismo diasporico di Luzzatto, altrimenti non si capisce l’ossessione per Levi. Lo storico genovese dovrebbe considerare che, certo, la storia è sempre “storia contemporanea”, ma il mestiere di storico ha alcune regole che vanno rispettate ed è possibile esprimere le proprie opinioni sugli ebrei, sull’Italia, l’Europa e Israele senza abusare della storia e senza giocare al vecchio épater les bourgeois.
Daniela Coli per l’Occidentale