È stata una lunga vita quella di Antonio Giolitti, nato il 12 febbraio 1915 e morto l’8 febbraio 2010, ma soprattutto una vita intensa che ha potuto attraversare da posizioni di protagonista l’evoluzione del sistema politico italiano, dalla corrosione e dal crollo della svolta fascista sino alla crisi, volendo usare un termine benevolo, di quella «repubblica» che come giovane combattente partigiano aveva contribuito ad instaurare. In una storia del genere trovare percorsi lineari è una contraddizione in termini, ma quello del nipote del grande statista Giovanni Giolitti è stato particolarmente tormentato.
Non lo testimonia solo una biografia politica che passa dall’antifascismo intellettuale all’adesione al comunismo, dalla rottura col Pci nel 1957, dopo lo schock dei fatti di Ungheria, a una sofferta per quanto creativa militanza nel Partito socialista, infine dal ritorno come «indipendente» nelle fila del Pci alla partecipazione combattuta, ai travagli della cosiddetta seconda repubblica. Lo accredita altrettanto e anche di più la sua vicenda di intellettuale a tutto tondo, una dimensione mai dismessa neppure nei momenti più assorbenti del suo lavoro politico.
Non può dunque che suscitare un plauso la decisione della Fondazione Basso e dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana di avviare «una riflessione storica» sulla figura di Giolitti. Il volume che ne è uscito è in verità un comporsi di riflessioni storiche in senso proprio e di riflessioni che vengono invece da amici e collaboratori e che dunque sono, di necessità, delle testimonianze, per quanto criticamente avvertite. Alla prima tipologia corrispondono i saggi di Mariuccia Salvati, Luisa Mangoni e Tommaso Munari che riguardano la formazione e poi la sua esperienza come redattore della Einaudi, nonché di Gian Paolo Manzella. Marco Gervasoni e Andrea Ricciardi sulle sue vicende politiche nel Psi, nella Commissione europea e poi nel magma della sinistra dagli anni Ottanta in avanti. Appartengono alla seconda tipologia gli interventi di Cafagna, Pavone, Ripa di Meana, Reichlin, Ruffolo, Archibugi, Manin Carabba, Spaventa, Nesi. I temi sono tutti di grande interesse. Sul versante intellettuale il percorso è quello di un uomo che cerca, direi quasi con caparbietà, la costruzione di una «cultura di sinistra» in un Paese come il nostro che non è che abbia un grande trasporto per una politica che si fondi su un solido lavoro di riflessione. Dalla traduzione del Max Weber de «la politica come professione/vocazione» sino all’appello del giugno 1995 per la fondazione di un nuovo partito di sinistra, Giolitti rimane sulla breccia a discutere delle radici dell’azione pubblica, weberianamente travolto dal conflitto fra l’etica dell’identità e l’etica della responsabilità, o, più prosaicamente, fra la ricerca di una dimensione razionale per la costruzione del futuro e il dovere di non perdere, nel governo delle tensioni del presente, la bussola di un rigoroso confronto con i propri valori. La vicenda politica di Giolitti è da questo punto di vista abbastanza emblematica. Avendo iniziato la sua carriera come deputato del Pci alla Costituente, rompe con quel partito non solo a seguito degli eventi di Ungheria, ma soprattutto per un suo coraggioso intervento all’VIII Congresso del Pci l’anno dopo: si prende l’insulto di prammatica, quello di «riformista» (e sarà Ingrao a chiedere poi in direzione che non ci siano «tolleranze» verso quell’impostazione, lo stesso Ingrao che, molto più tardi, dovrà ammettere che sul ’56 Giolitti aveva ragione).
Seguirà la lunga stagione del centro sinistra, quel momento in cui l’intellettualità italiana entrata in politica con la repubblica si misurerà sul dilemma che dava il titolo a un fortunato volume del Nostro: Riforme e Rivoluzione, e dunque con lo «sporcarsi le mani» in una attività di governo. Giustamente in un denso colloquio finale fra il presidente Napolitano ed Eugenio Scalfari (che fu con Giolitti in una corrente del Psi, ma che poi lo ospitò nell’ultima fase su «Repubblica») viene messo in rilevo quello che è stato (e continua ad essere) il dilemma della sinistra responsabile in questo Paese: ammettere che non vi è nulla di sconveniente nella «socialdemocrazia», che non significa tradimento dell’orizzonte illuminista di una società fondata sulla libertà, l’eguaglianza e la fratellanza, ma una volontà di mettere questo sogno su dei solidi piedi, facendo della «democrazia» una «democrazia sociale».
Realizzare questo progetto significa però accettare la sfida della politica come «costruzione» di una società progressivamente migliore, mettendo da parte l’idea che essa sia invece una «proclamazione» di qualche splendido programma rispetto alla cui realizzazione si rimane indifferenti.
Antonio Giolitti. Una riflessione storica, a cura di Giuliano Amato, Viella, Roma, pagg. 278, € 25,00