Qui finisce la mia odissea con Roth. E con quale miglior scelta se non di finire dall’inizio? Si perché Roth mi ha saziato a tal punto come l’acqua che scorre dai lati della bocca mentre la gola indugia al sorso ulteriore. Basta, non ne vogliamo più. Così, con evidente logica e tranquillità d’animo, dico addio al mio autore preferito di sempre con il “carico” di pagine che porterò sempre con me: una trentina di libri in un mix tra fiction e non-ficton e romanzi in serie (leggi, Zuckermann).
Il racconto “Goodbye, Columbus” che da il titolo alla raccolta appena riedita con una nuova traduzione da Einaudi, fu pubblicata da Roth nel 1959 (la prima edizione italiana è della Bompiani che lo tradusse l’anno dopo). Il libro vinse il National Book Award di quell’anno. Goodbye, Columbus fu adattato per lo schermo nel film del 1969 dallo stesso titolo, e interpretato da una giovanissima Ali McGraw (la stessa di Love story) e Richard Benjamin (per capirci: quello dell’esilarante “Visite a domicilio” con Walter Matthau).
“Goodbye, Columbus” è narrato dal punto di vista di Neil Klugman, un 23enne ebreo che vive con gli zii in un quartiere “basso” di Newark(e dove sennò?), e lavora in una biblioteca pubblica. La storia gira intorno al suo rapporto, nel corso di un’estate, con Brenda Patimkin, una studentessa di famiglia ebrea-borghese che vive nei sobborghi nel quartiere altolocato di Short-Hill. La loro relazione è caratterizzata dal forte contrasto delle loro differenze socioeconomiche, nonostante il fatto che siano entrambi ebrei. L’estate si conclude con Brenda al matrimonio del fratello Ron, dopo di che se ne torna al College di Radcliffe nel Massachusetts dove studia.
A guardare meglio dentro le pagine di “Goodbye, Columbus”, Roth esplora i temi dell’identità ebraica e le divisioni di classe all’interno della comunità, la crisi spirituale sull’ebraismo, l’amore, il sesso, le relazioni e la lotta per la conoscenza di sé. Nonostante il suo argomento e le tematiche assai serie, la novella è caratterizzata da quello humour, mi si passi il termine, squisitamente rothiano, come un marchio di fabbrica al quale l’autore mi ha abituato negli anni, espresso qui, finemente sintonizzato sulle sue osservazioni sia proprie che della famiglia della ragazza. Questioni, queste, che hanno distinto tutta la sua produzione in cinquant’anni di mestiere e, gli articoli che accompagnarono l’uscita di Goodbye Columbus, ricordano le polemiche sollevate a suo tempo per il ritratto poco lusinghiero dei caratteri dei personaggi ebraici non fosse altro per il fatto che era egli stesso uno scrittore-ebreo a parlarne. Oggi il racconto Goodbay Columbus lo leggiamo come una storia di formazione; ma, data la frequenza con cui, i protagonisti, si impegnano nei rapporti sessuali a casa dei genitori di lei, è chiaro che, a suo tempo, venne marchiato come un romanzo provocatorio e lussurioso, termine questo più appropriato per la società americana del 1959 ancora abbastanza bacchettona e timorata di Dio (pur impegnata, d’altro canto, nella guerra fredda). Fu davvero coraggiosa la comunità intellettuale a regalargli il miglior premio letterario del suo Paese.
A leggere le 100 circa pagine di Goodbye Columbus, posso dire che Roth affilava le armi per il grande autore che il mondo avrebbe scoperto poi. A dirla con il Murakami dell'”Arte di correre”, stava facendo stretching ai muscoli, riscandandoli, in cerca del nuovo grande romanzo. Ce ne sono stati; li ho citati così tante e tante volte che non mi va di ripeterlo. Rimane la profonda gratitudine di lettore per libri come Portnoy, Everyman e la Pastorale.
Tema ricorrente nella biografia del mio autore più amato, è il tempo. Anche in questo racconto è proprio il tempo che, come cavalcando un’onda di scrittura forte e un dialogo eccellenti, viene fuori con il tema dell’età che si riflette sul mondo del fratello di Brenda, Ron, in quella fase sulla vita dove l’urgenza del fare è nella mente di ognuno come un obiettivo da raggiungere.Nel suo ultimo giorno di scuola una voce offre un grido di battaglia per l’università prossima a venire, mentre con una strana nostalgia riflette sulla sua crescita.
La vita lo chiama, chiama tutta quella generazione con ansia, li trascina nervosamente fuori nel mondo e lontano dai piaceri di queste mura coperte d’edera,(mi riferisco alle loro case e alla piscina del country-club dove i due si sono conosciuti), ma non dai loro ricordi. Alcune delle loro vite saranno concomitanti, per altri questo cammino sarà il fondamento di quelle che verranno: si devono scegliere mariti e mogli; dovranno scegliere tra posti di lavoro e case, di crescere figli e nipoti. Tutti, però, non ti dimenticheranno mai l’Ohio.
Ancora: a leggere le 100 circa pagine di Goodbye Columbus ecco l’altro thread principale che lo attraversa: l’assimilazione. I Patimkin sono una famiglia ebrea e mentre si sforzano di mantenere le proprie tradizioni, cercano, allo stesso tempo, di nascondere il loro patrimonio. Il padre pensa che nulla valga meglio dei migliaia di dollari per aggiustare la curva dei nasi dei suoi bambini. In questo, Neil, un ebreo-decaduto, misura la differenza e la distanza che lo separa dal padre di lei, da Ron, da Brenda, per non parlare della madre: vera oppositrice senza latenza di quel rapporto. Ci sarebbe da dire qualcosa sul suo conformismo tutto racchiuso nella lettera che manda a sua figlia a fine racconto. Lui che sogna di andarsene pensa: “Non ha senso portare nei sogni Tahiti, se non può permetterti il biglietto per andarci.”
Tra le altre storie, ognuna affronta questioni contemporanee del dopoguerra e la vita ebraica, Riflesso di “Goodbye, Columbus” è “La conversione degli ebrei”: la storia di un ragazzo che mette in discussione l’insegnamento ebraico, è un standout evidente per la sua conclusione controversa, ma è in “Difensore della fede”, la storia di un sergente ebreo che cerca di aiutare gli altri soldati ebrei sotto il suo comando alla loro vita militare, che il senso dell’intero libro si sente più denso e completo.
Gli altri sembrerebbero meno efficaci; Non si può giudicare un uomo dalla canzone che canta e Eli, il fanatico, sono abbastanza prevedibili e con un finale, per me, poco soddisfacenti.
Non ringrazierò mai abbstanza la mia buona stella di avermelo messo sotto gli occhi. Mi rendo conto che, nell’edizioni Einaudi in mio possesso (i suoi titoli nel 1984 non erano ancora in catalogo), i libri di Roth mi hanno accompagnato negli ultimi venti e passa anni.
Goodbye Mr.Roth.
per BookAvenue, Michele Genchi
parole e sintassi che sgocciolano Roth, è vero!! Così come è vero che continueremo a leggere il “tuo” Roth su questa pagina.
Un solo appunto: invertirei l’ordine delle grandi opere in Pastorale, Everyman, Portnoy.
Non ci credo. Mi hai riempito le orecchie fino all’inverosimile su Roth e adesso mi racconti che smetti? Di un pò, ma ci credi davvero alla bugia che hai detto, e dopo un “pezzo” così ben scritto ? Ma va là.
Fabrizio
Roth est un grand écrivain, j’aime la façon dont vous l’écrivez, même si le traducteur google a traduit ainsi peut-être pas tout.
Charles
S.Maria, Cape Verde
Qualcosa mi dice che non abbandonerai nè Roth, nè il piacere che provi a scriverci sù ogni volta, privando me e gli tutti gli altri di leggere quel che hai da dire su questo gigante. Saper scrivere è un dono particolare che non hanno tutti. In Bookavenue, questo dono, abbonda. A partire da te.
Lory
Splendido intravedere Roth attraverso il cristallo bagnato di pioggia delle tue parole.
Grazie!