STORIA di uno scrittore “cult” riscoperto. Merito, tra gli altri, anche di un festival che lo celebra ormai da qualche anno, in quel paese nei pressi di Chieti che ha un nome familiare e quasi dialettale, un nome che sembra inventato da un gioco romanzesco di fantasia: Torricella Peligna. Lui è John Fante, Denver nel Colorado classe1909, figlio di emigranti. Del padre Nicola aveva quel sangue abruzzese che per metà gli scorreva nelle vene, perché l’altra metà apparteneva alla madre, Maria Capolungo, americana di nascita ma figlia di genitori lucani. Storia antica di immigrati italiani, di operai, muratori come papà Nick, gente povera che aveva una famiglia da sfamare con un salario che non bastava mai.
E John vive in quella dimensione, quella dei “dago” , “gente di coltello”, termine spregiativo con cui gli americani del tempo additavano quei poveracci del meridione d’Italia che abitavano in condizioni di sovraffollamento dentro case fatiscenti, parlavano un cattivo inglese e pretendevano un lavoro e un posto nella società.
EPPURE il padre di John era muratore, orgoglioso di esserlo: era quello Svevo Bandini che sarebbe diventato uno dei personaggi chiave della saga, dove l’alter ego Arturo è protagonista della finzione romanzata quanto specchio della sua stessa vita. Orgoglioso perché un muratore, diceva Svevo, sa fare quello che “i signori” non sapranno fare mai con le loro mani. Meraviglioso il conflitto quasi di natura mitologica, senza gli eccessi della tragedia greca, che connota il rapporto Arturo-Svevo. Si adorano, si odiano, sono mondi opposti. Quello di carta e di pensieri alla deriva del giovane Fante a confronto con le bevute omeriche di un padre faticatore, sanguigno,bestemmiatore e a suo modo devoto alla famiglia e a Maria, la moglie. La tradisce con il vino, con la birra e forse con qualche amore mercenario da dopo sbronza, ma le vuole bene, anzi la adora. Non se ne sente degno. E’ un gioco di ruoli fatto di usanze quasi tribali, arcaiche: il meridione d’Italia, nonostante le rivendicazioni di essere “cittadini americani”, prorompe con prepotenti incursioni nel dialetto, metafora formale di un modo d’essere. Lo stesso modo di esprimersi di Donna Toscana,la nonna terribile, troppo simile a lui per potersi stabilire un accordo o quanto meno una pax armata.
IL FESTIVAL di Torricella non a caso trae il titolo da uno dei racconti più evocativi di Fante: “Il Dio di mio padre”. In questo intenso e insondabile rapporto di odio-amore si celebra il rito senza tempo dell’emancipazione dalle proprie radici mediante quella ribellione che prelude a una più matura, successiva riconciliazione. Leggere l’intera saga di Arturo Bandini spiega bene questo intricato dedalo esistenziale che piano piano si dipana e sfocia nella soluzione pacificata di un lungo psicodramma. E proprio in questo poker di romanzi, del quale fanno parte “La Strada per Los Angeles”, “Aspetta Primavera, Bandini” e “I Sogni di Bunker Hill”, spicca “Chiedi alla Polvere”, forse il suo capolavoro in assoluto, che è diventato anche un buon film prodotto nel 2005 da Tom Cruise, diretto da Robert Towne e interpretato da Colin Farrell e Salma Hayek . Uno scrittore dal destino altalenante anche se la sua è stata davvero una “vita piena” per parafrasare il titolo di un suo libro uscito nel ’52, dopo un periodo segnato da una profonda crisi narrativa.
SECONDO Charles Bukowski che nel ’78 aveva conosciuto Fante, si trattava «del narratore più maledetto d’America» e del migliore autore che avesse mai letto: «Fante è il mio Dio», si spinge a dichiarare pubblicamente. Una spinta emotiva sull’onda della quale Bukowski arriva a minacciare la propria casa editrice Black Sparrow di non consegnargli il suo ultimo romanzo se non si dirà disposta a ripubblicare per intero le opere di John Fante. Una decisione destinata a dare coraggio al provato scrittore, ormai quasi cieco e gravemente mutilato a causa di un devastante diabete. E’ mancato nel maggio del 1983.