Il libro. Un grande avvenire dietro le spalle

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Per gli storici del libro e dell’editoria gli anni che stiamo vivendo dovrebbero essere entusiasmanti. Siamo di fronte a cambiamenti epocali paragonabili solo a quelli dei tempi di Gutenberg. Vi sono anzi tutte le premesse perché queste trasformazioni risultino ancora più radicali e profonde sulle abitudini culturali e sulle pratiche sociali.

Nel XV secolo si era passati dal libro scritto a mano a quello riprodotto meccanicamente in molte copie, anche se l’oggetto in sé non era in fondo cambiato molto. A distanza di tanti secoli non abbiamo difficoltà a riconoscere come libro un codice medievale, destinato a funzionare in linea di principio secondo le medesime regole del libro a stampa contemporaneo: una serie di fogli rilegati da una parte, destinati a contenere un testo da un verso e dall’altro. Ad un primo sguardo stentiamo anche a distinguere un incunabolo da un codice a mano degli stessi anni. La continuità tra i due oggetti è dunque lampante, anche se qualche decennio dopo Gutenberg un geniale editore come Aldo Manuzio ha pensato di adeguare il prodotto alle caratteristiche della nuova tecnologia e alle impensabili opportunità che aveva determinato, ideando dispositivi in grado di renderlo più pratico e funzionale.

Ecco quindi caratteri pensati appunto per la stampa, la numerazione delle pagine, nuove e più efficaci forme di interpunzione e di impaginazione.
Ma nella sostanza erano dettagli che perfezionavano qualcosa che esisteva già da oltre un millennio, da quando la forma codex aveva progressivamente sostituito il rotolo di papiro. Il cambiamento più notevole non era stato nell’oggetto, quanto nella capacità di ampliare il pubblico. La tipografia, l’ars artificialiter scribendi, era in grado di produrre molto di più e a costi inferiori. Quello che noi chiamiamo mondo moderno deve molto a queste piccole innovazioni che hanno indotto trasformazioni che gli inventori non avrebbero mai osato immaginare.
A distanza di cinque secoli siamo nelle condizioni di assistere in prima persona ad un’altra rivoluzione simile. Eppure non si scorgono grandi entusiasmi.
Le curiosità nei riguardi del nuovo sono temperate da remore, preoccupazioni e nostalgie che fanno sì che i timori del futuro siano ben maggiori di quanto non sia il desiderio di comprendere quanto sta avvenendo. Anche nel secondo Quattrocento, accanto agli entusiasti della nuova tecnologia, vi era stato chi aveva vissuto male quel passaggio. Qualcuno sdegnosamente aveva giurato che nessun libro stampato sarebbe mai entrato nella sua biblioteca, qualche vecchio copista lamentava la fine di un mestiere glorioso, qualcun altro ancora paventava le sinistre conseguenze sulla società di una cultura scritta che minacciava di diffondersi senza controlli.

 

I cambiamenti attuali hanno tutte le premesse per essere più gravidi di conseguenze di quelli di 500 anni fa. Assistiamo in primo luogo alla dematerializzazione di un prodotto culturale. Ciò che era un oggetto che necessitava dei suoi artigiani per la produzione e che doveva essere preso in mano per essere letto, abbandona ogni materialità per trasformarsi in una serie di bit che hanno bisogno di congegni elettronici per essere letti e conservati. Un cambiamento non da poco e in grado di innescare impensabili trasformazioni nelle pratiche culturali e sociali.
Già ora le trasformazioni hanno tutta l’aria di essere irreversibili. Jason Epstein, leggendario editor di Random House, cofondatore della «New York Review of books» e, più recentemente, promotore dell’editoria on demand tramite la Espresso Book Machine, ha scritto che «la transizione in corso nell’industria editoriale da un catalogo di oggetti fisicamente stoccati in magazzini e consegnati ai dettaglianti uno per uno a files digitali depositati nel ciberspazio e trasmessi ovunque rapidamente e a poco prezzo, come già avviene per le email, è ormai in corso ed è irreversibile».

Con la dematerializzazione sono destinati a scomparire molti dei mestieri che avevano accompagnato la plurisecolare storia del libro. In primo luogo vengono meno i mediatori, come i librai e i distributori, sopraffatti dalla forza di penetrazione della rete. Qualcuno preannuncia imminente anche la scomparsa dell’editore, come figura strettamente legata al modo tradizionale di produzione dei libri. L’editore ha avuto la funzione storica di mettere in contatto l’autore con il suo pubblico potenziale o, viceversa, conoscendo caratteristiche e desideri del pubblico, è stato in grado di spingere potenziali autori a soddisfare bisogni di lettura di cui era a conoscenza. Nel momento in cui saltano professioni di mediazione come quella del libraio, possibile che non entri in discussione anche quella dell’editore, sostituita dalla straordinaria capacità del web di stabilire contatti e relazioni precedentemente impensabili? E, giunti a questo punto, perché solo la funzione dell’autore dovrebbe rimanere com’era? Certamente dovrà cambiare la nozione di proprietà letteraria, costruitasi sul libro e sui suoi modi di diffusione, e svuotata di senso in spazi virtuali slegati dall’idea di territorio.

Pirateria e contraffazione, nemici storici del mondo del libro, assumono contorni nuovi e minacciosi, determinando cautele in chi investe. È del resto fresca la memoria del tracollo dell’industria discografica, messa in ginocchio dalle riproduzioni illegali e dalla consuetudine del file sharing.
Circa l’irreversibilità non credo che possano esserci dubbi. Abbiamo visto di receente entrare in crisi potentissimi sistemi commerciali. È in vendita la catena di librerie Barnes & Noble, che dagli anni ’70 aveva determinato la fine delle piccole e medie librerie indipendenti americane, favorendo lo sviluppo delle concentrazioni editoriali e rivolgendo l’attenzione verso pochi prodotti di enorme smercio, trascurando tutto il resto. Malgrado i massicci investimenti rivolti ai libro digitale, i proprietari si sono resi conto che, se ci saranno ancora librerie nel XXI secolo, dovranno essere molto diverse dalle attuali. Commentando la vicenda l’«Economist» ha concluso freddamente: «Il settore è in trasformazione.

Barnes & Noble è un marchio molto apprezzato, ma questo non è garanzia di sopravvivenza. Le librerie di mattoni appaiono sempre più superate, se
non come luoghi piacevoli per prendere un caffè o per farsi firmare un libro da un autore. Chi finirà per possedere Barnes & Noble dovrà affrontare un compito difficile: adeguarsi al mondo nuovo, o essere consegnati alla sezione storia». Ma anche in altri ambiti i segni del passaggio irreversibile sono ormai evidenti. Nella produzione editoriale scientifica è ormai un dato di fatto. Le grandi opere di consultazione e le riviste stanno tutte passando sulla rete, risolvendo questioni di costi e di distribuzione. Rimangono ancora le monografie, soprattutto in ambito umanistico, ma per quanto tempo ancora riusciranno a resistere, quando i fondi per la ricerca sono in diminuzione e i nuovi prodotti consentono una diffusione difficilmente pensabile per il mondo cartaceo? È difficile peraltro riuscire a prevedere il futuro. Il cambiamento nelle tecnologie della comunicazione è in atto ormai da decenni, ma tutte le precedenti previsioni sono fallite, anche perché l’immaginazione è stata in genere superata dal cambiamento stesso. Per chi è nato gutenberghiano, non è facile digerire un passaggio troppo radicale per essere assimilato nell’arco di una singola esistenza.

Al pari di Filippo della Strada, quel copista di fine ’400 spazzato via dalle assordanti tipografie, che non riusciva a capire che bisogno ci fosse della stampa se sino ad allora se ne era fatto tranquillamente a meno, siamo disorientati di fronte ai mutamenti che si prospettano, che non si possono negoziare o rallentare.
Siamo anche troppo emotivamente coinvolti per provare a comprendere. Siamo stati entusiasti dell’informatica sinché ci ha consentito di fare più
semplicemente e meglio quello che esisteva già. Ma abbiamo iniziato ad avere dei dubbi nel momento in cui il rapidissimo sviluppo della tecnologia ha iniziato a erodere le fondamenta su cui ci reggiamo. Per questo molto ci preoccupano gli aspetti certamente oscuri dei nuovi libri, come i sinora irrisolti problemi legati alla fragilità dei contenuti digitali, alla loro accessibilità e alla conservazione nel tempo. È un mondo quanto mai delicato quello della comunicazione elettronica. Come tutto appare facilmente a disposizione, altrettanto facilmente si potrebbe perdere. «Basta un click per accedere a tutti i contenuti di tutte le biblioteche del mondo – scrive ancora Epstein – ma un altro click potrebbe cancellare gli stessi contenuti e portare la civilizzazione alla fine»3. E poi come accedere a questi depositi di sapere? Ci si può fidare di motori di ricerca gestiti da colossali aziende, prive di controllo? Osservazioni in fondo consolanti perché paiono rallentare una corsa, che invece non rallenterà.

Forse per questo le curiosità sono volte più ad enfatizzare questi aspetti che a sforzarsi di comprendere quanto sta avvenendo. In questi giorni su internet
ha grande successo un breve video spagnolo nel quale un presentatore, che pare ispirarsi a Steve Jobs mentre illustra le meraviglie del suo iPad, propone al pubblico un nuovo oggetto, pronto ad entrare in produzione. È un prodotto che ha risolto brillantemente tutti i problemi tecnici che immancabilmente assillano i congegni elettronici: le batterie che si scaricano, le connessioni che non funzionano, l’hardware che non risponde, la comodità di lettura in qualsiasi condizione, le difficoltà del riciclo dei materiali con cui è costruito: si chiama book.

Mario Infelise
Università Venezia

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