Gaza. Riflessioni a margine

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La distruzione e sofferenza, con più di quarantaduemila morti, inflitte alla Striscia di Gaza di questi giorni, vengono da lontano.

Tra la fine di dicembre 2008 e metà gennaio 2009 altre centinaia di palestinesi rimasero uccisi di fronte all’attacco del confinante dentro la striscia. Un massacro che non fu il risultato di un terremoto, della rottura di una diga o di un evento naturale. Le conseguenze di quell’attacco furono devastanti anche per le allora già deboli infrastrutture. Oggi come ieri queste tragedie sono state inflitte intenzionalmente.

Ma qual è il significato politico e strategico di questa tragedia umanitaria?

Per comprendere le cause della situazione attuale, è necessario tornare ai giorni degli accordi di Oslo del ’93. Anche riconoscendo il territorio unico della Striscia di Gaza e della Cisgiordania senza terre di “passaggio” tra di loro, la crisi era in realtà iniziata con l’isolamento di Gaza da parte di Israele fin dal 1967. Un isolamento politico e militare rispetto a Israele e alla Cisgiordania e che ha esacerbato quello “fisico” di Gaza, mentre la comunità internazionale ha tentato di giustificare la politica d’isolamento della Palestina della Striscia, basandosi su vari fattori, come l’identità, il genere, la situazione economica, e così via, soprattutto per motivi di sicurezza. Conseguenza la quale, si è giustificato il consolidamento e rafforzamento, anzi,  di queste restrizioni sulla popolazione di Gaza.

Nell’estate del 2005, quando Israele ha ritirato le sue forze militari dalla Striscia, dichiarata indipendente, e smantellato le sue colonie, si è verificata la separazione dalla Cisgiordania che condiziona moltissimo ancora oggi la vita politica della nazione. In effetti, una situazione destinata a creare le condizioni politiche che garantissero Gaza sotto il controllo israeliano. Le autorità israeliane miravano a impedire che i rifugiati palestinesi, in particolare quelli della Striscia di Gaza, potessero tornare a mettere piede nel territorio di Israele. Questa separazione ha avuto effetti devastanti sulla popolazione palestinese. La creazione di un “passaggio” tra Gaza e Cisgiordania era vista come una soluzione temporanea e tale è rimasta sulla carta, consolidando la divisione politica e geografica del paese a quel punto tagliato in due, complicando ulteriormente il processo di pace.
L’isolamento di Gaza ha peggiorato l’accesso a beni e servizi della popolazione, influenzando terribilmente la qualità della loro vita. L’idea di un accesso facilitato attraverso l’Egitto fu una proposta liberatrice ma che trovò ostacoli politici e pratici. L’allora ministro della difesa israeliano, Shaul Mofaz, per primo, dichiarò che il controllo militare su Gaza era necessario per mantenere la sicurezza del suo paese ma ciò comportò ulteriori restrizioni per i palestinesi, sovvertendo gli accordi di Oslo del ’93, incluso il Protocollo di Parigi dell’anno successivo, privando la Palestina della sua stessa sovranità dentro i suoi confini e minando l’idea di un destino comune tra due pezzi separati di nazione. La Cisgiordania da una parte e la Striscia di Gaza dall’altra.

A questo si aggiunga il paranoico controllo militare dei valichi. Il presidente Mahmud Abbas accettò termini dell’accordo che mantennero il valico di Rafah nelle mani di Israele che prevedeva la presenza comune dei due eserciti (con l’inutile monitoraggio degli europei) con compiti di polizia di frontiera e quello del terminal di Kerem Shalom attraverso il cui valico i beni provenienti dall’Egitto dovevano obbligatoriamente transitare. Il valico di Erez fu salvato dal diventare ufficialmente un confine internazionale, anche se, de facto, Israele lo aveva trattato come tale per diversi anni (ad esempio, timbrando i passaporti di stranieri che passavano attraverso Erez verso Gaza con timbri di uscita e con timbri di ingresso al ritorno).

Per aumentare la pressione sui palestinesi, Tel Aviv trovò un altro approccio, questa volta “meccanico”: l’istituzione di un posto blocco che potesse essere inasprito per qualsiasi pretesto. È importante rilevare che Israele non attese né la vittoria di Hamas alle elezioni parlamentari di gennaio 2006 né la sua presa di controllo degli edifici governativi e dei servizi di sicurezza di Gaza diciassette mesi dopo per iniziare questa pressione. Va riconosciuto, tuttavia, che la divisione intra-palestinese tra Hamas e Fatah—tra un governo a Gaza e un altro a Ramallah—facilitò notevolmente il compito di Israele di separare i due territori e rafforzare la percezione che entrambi costituissero due entità distinte con percorsi politici separati.

Nel gennaio 2008, i palestinesi infransero le barriere che a Erez separano Gaza dall’Egitto in nome della fratellanza palestinese-egiziana e i cittadini della Striscia, già frustrati da anni di privazioni, si riversarono in massa nel Sinai per rifornirsi di tutti i tipi di beni e prodotti non più reperibili nel loro territorio. L’Egitto, frainteso sia dall’opinione pubblica araba che palestinese, dovette utilizzare tutti i mezzi a sua disposizione, compresa la forza, per riacquistare il controllo del suo lato del confine e bloccare le necessita dei palestinesi. La lezione da trarre da questo episodio è che né il blocco israeliano di Gaza né le sue misure unilaterali sono riusciti a trasformare Erez in un valico internazionale a causa delle intermittenze con cui l’Egitto chiude il valico.

Nel frattempo, il confine che separa la Striscia di Gaza da Israele era diventato un vero e proprio fronte militare fin dal momento del disimpegno unilaterale quando fu annunciato per la prima volta. Ai razzi di Hamas, e le ritorsioni israeliane (in parte limitate, ma sempre sanguinose), seguivano tregue e violazioni delle stesse. Quella che è generalmente definita guerra asimmetrica, in questo caso costituiva da un lato un’ideologia di resistenza e dall’altro una capacità militare preponderante, ma anche un’impotenza nel prevenire il lancio di razzi (primitivi). Questa polarizzazione sul fronte di Gaza si stava verificando all’interno di un ambiente più ampio: l’indebolimento della deterrenza di Israele durante la guerra in Libano (luglio-agosto 2006); le conclusioni della Commissione Winograd di Israele sulle responsabilità e gli errori nella conduzione di quella guerra, e gli sforzi dell’esercito israeliano per tradurre in atrocità gli insegnamenti dalla guerra.

Senza entrare nelle circostanze interne e internazionali che hanno facilitato l’avvio delle ostilità nel dicembre 2008, si può dire che Israele ha scelto Gaza come teatro di guerra per raggiungere tre obiettivi: applicare le lezioni operative della guerra in Libano (scaricare, cioè, tutto il scaricabile dal cielo per preparare il terreno); ricostruire la sua deterrenza a livello regionale, e guadagnare il maggior numero possibile di punti (intesi come posti strategici di controllo) a Gaza. Sfortunatamente per la popolazione civile della Striscia, questi tre obiettivi, almeno due dei quali non avevano nulla a che fare con i suoi cittadini, hanno reso inevitabile che diventassero il bersaglio diretto della guerra.

Per raggiungere il primo obiettivo: applicare le lezioni operative tratte dalla sfortunata esperienza dell’incursione terrestre nel sud del Libano, l’esercito israeliano doveva dimostrare di poter avanzare sul terreno con solo deboli perdite nelle proprie fila. Questo richiedeva che al terreno, teatro delle operazioni, fosse dato a un grado eccessivo di protezione: bombardamenti aerei intensivi mirati a distruggere metodicamente qualsiasi ostacolo (alberi, edifici, case, compreso chi cercava rifugio all’interno) prima del più piccolo avanzamento dei militari sul terreno e “coperti” dai carri armati che li precedevono. La premessa di tali tattiche era che qualsiasi distruzione fisica o perdita di vita civile palestinese necessaria per evitare di mettere in pericolo la vita dei soldati israeliani in battaglia era giustificata.
Sebbene tale condotta in sé costituisse già una violazione ingiustificabile del principio di proporzionalità, e lo è a maggior ragione oggi, le implicazioni del secondo obiettivo erano molto più preoccupanti.  Tra le lezioni tratte dall’occupazione militare di terre arabe (compresi i territori della Cisgiordania, di Gaza e del sud del Libano) e dalla guerra del 2006 in Libano, la leadership politico-militare israeliana dovette considerare le nuove sfide inerenti a qualsiasi futuro conflitto regionale: la possibilità che il bombardamento aereo di siti strategici e militari non fosse più sufficiente per vincere; l’estrema difficoltà di mantenere e assorbire i territori conquistati; e il fatto che i nemici da affrontare fossero più probabilmente terroristi , quasi impossibili individuare e sconfiggere attraverso attacchi diretti. Da queste potenziali sfide emerse ciò che l’esercito israeliano chiamò, la “dottrina Dahiya”, in riferimento alla sistematica distruzione di Dahiya, i sobborghi sciiti del sud di Beirut nell’estate del 2006.

Il modello Dahiya si basava sull’idea che la necessaria restaurazione della deterrenza potesse essere raggiunta mediante mezzi diversi da una decisiva vittoria sul campo di battaglia nel modello del 1967 e successivi, in particolare dimostrando che Israele in futuro non avrebbe esitato a colpire centinaia o addirittura migliaia di civili.  Il targeting da parte di Israele dei civili di Gaza e delle infrastrutture civili era precisamente una tale dimostrazione rivolta ad altri attori regionali: tra tutti Iran, Siria e Hezbollah, a dimostrazione di quanto Israele ha compiuto questi terribili mesi sulla Striscia, in sostanza rasa al suolo.

Infine, la formidabile pressione distruttiva e sanguinosa esercitata sui palestinesi aveva un terzo obiettivo focalizzato sulla situazione a Gaza stessa. Ma qui, a differenza dei primi due obiettivi, la natura e l’estensione dei fini erano lasciate alle circostanze e all’evoluzione della campagna (sul campo di battaglia, sul fronte interno palestinese, lungo il confine egiziano-gaziano e nell’arena internazionale).

Che sia chiaro: l’assalto, a loro volta l’invasione di Israele dei miliziani di Hamas e la brutalità dell’eccidio di milleduecento persone non ha scusanti. Nessuna. Ciò che Netanyahu e i suoi generali speravano, dopo il 7 ottobre 2023, era di trovarsi in una posizione migliore alla fine della guerra rispetto a quella di partenza: sia attraverso il collasso militare di Hamas o almeno il suo indebolimento dal punto di vista politico agli occhi della popolazione, sia attraverso il successo della strategia Gaza-Egitto come messo in evidenza prima. Per non parlare dell’estensione del conflitto su ben sette fronti tra questi l’eliminazione  verticale dei comandanti Hezbollah e i bombardamenti a sud del Libano che hanno provocato fin qui un migliaio di morti.

Finisco.  Queste poche riflessioni sulla guerra a Gaza, non posso fare a meno di notare il fallimento, o quanto meno l’inconcludenza, dei tre obiettivi di Israele.

In primo luogo, l’esercito israeliano non ha dimostrato di essere in grado di condurre una futura guerra terrestre di successo senza perdite tra le proprie fila contro un nemico meno armato come Hamas. In secondo luogo, la deterrenza, salvo che non sia nucleare e legata alla sopravvivenza stessa della nazione, non può essere considerata efficace se limitata a minacciare i civili con l’annientamento. Va da sé che non è una possibilità sul tavolo anche per Netanyahu. Il targeting deliberato dei civili dipende molto dal grado d’indulgenza della comunità internazionale quando tali attacchi si verificano e, quindi, non può essere alla base di una strategia militare. In terzo luogo, la pressione israeliana non ha costretto la popolazione civile di Gaza, la leadership di Hamas o l’Egitto a scegliere tra due scelte per Gaza: una catastrofe umanitaria o un ritorno nel grembo egiziano. In altre parole, la guerra di Gaza è stata ieri e lo è ancora di più oggi un enorme spreco: una guerra per pochi risultati, vittime civili per nulla, ma una violazione deliberata delle leggi di guerra. 

Infine, una domanda alla comunità internazionale e all’Europa del G7 a trazione italiana: Perché quando sono i russi a invadere l’Ucraina si parla d’invasione, crimini di guerra e genocidio e quando si parla di Palestina, da parte israeliana invece, solo di legittima reazione?

per BookAvenue, Michele Genchi

fonti:
C. Mansour, The war on Gaza, Journal of Palestine studies, n.4, 2009
NYT, What to Know About the Israel-Hezbollah War
NYT, Middle East Crisis, Special Issue
Bel Trew, It’s clear we are already in a Middle East war – one that will be difficult to stop, The Independent
Focus, Israele Palestina: la storia di una terra contesa
Claudio Vercelli, Storia del conflitto israelo-palestinese, Laterza


Il libro:

Enzo Traverso,
Gaza davanti alla storia,
Laterza
ed.2024 pp.104

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