Dall’Italia del Risorgimento a quella del Bunga Bunga. Vers.2

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Un’antica canzonetta francese ripeteva malinconica ‘Que reste-t-il des nos amours?’, e lì la memoria correva scapestrata a inseguire ricordi sbiaditi, fiori secchi tra le pagine di un libro qualunque, risate amiche che si confondono con le giaculatorie di parole senza senso con cui gli innamorati sono soliti farsi bersaglio.

E noi, con genuina curiosità, vogliamo chiederci che cosa resta, oggi, di Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi, il Pater Patriae, il combattente senza macchia e senza paura di cui, da qualche generazione, almeno il nome evoca un volto subito riconoscibile, un attributo certo, una celebre frase.

Dei tanti protagonisti del nostro risorgimento, Garibaldi è il meno trascurabile, il più celebrato; non solo dal fervore istituzionale che tutto appiana e tutto nasconde, ma dall’affetto di un popolo sinceramente innamorato –senza distinzione di sesso ed età, né di condizione sociale- di quest’uomo dai tratti severi, quasi torvo, ma di una severità bonaria, nonnesca. E Garibaldi, sin da quando era un ragazzetto nizzardo desideroso di avventure, di mare aperto, di scoperta, è sempre stato conscio di questo suo torvo, segreto fascino, e sempre ne ha fatto un uso più che spregiudicato, curando il suo aspetto deliberatamente trascurato, la sua aria vissuta, accrescendo la mitologia delle sue prodi imprese, con lo scopo, sempre, di contornarsi di belle signore sospiranti. Andava di moda, all’epoca di Garibaldi (cioè a dire dal 1807 al 1882), presso gli ambienti più raffinati dell’aristocrazia europea, avere per amante un filibustiere, un farabutto qualunque, un bucaniere della peggiore fatta. Garibaldi, che ne combinava di tutti i colori in nome di un’altra cosa parecchio in voga all’epoca, la Libertà, era un animale di razza, uno di schiatta superiore in quella casta eletta, ma compromettente, degli avventurieri. Intendiamoci, oggi G.G. non avrebbe sfilze di donnicciole che si strappano i capelli fuori dalla porta di casa: gli uomini irsuti alti 165 centimetri con pochi capelli e la fronte troppo ampia non sono più l’ideale di bellezza de giorni nostri. O no?

Però, dall’epoca sua alla nostra, Garibaldi non ha perduto solo il primato di charme e bellezza, ma ha perso parecchia della sua patina rivoluzionaria, del suo prestigio di condottiero, del suo coraggio di politico. Il simbolo più evidente di una tale perdita è lo spettacolo –francamente destabilizzante- che qualche giorno fa si palesava sotto i nostri increduli (ma quando mai!) occhi: giovinotti e fanciulle, militarmente abbigliati, marzialmente ma lietamente passeggianti per un italico borgo, accolti da due ali alquanto senili di supporters plaudenti. Era la pubblicità per il 4 novembre.

Il 4 novembre 1918 l’impero Austro-Ungarico si arrende all’Italia: Trento e Trieste, dopo decenni di lotte asperrime, possono fregiarsi del regio tricolore. L’Unità d’Italia è finalmente compiuta. Ci sono voluti parecchi morti ammazzati, parecchi soldati malamente armati, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: un ideale politico illustrissimo trovava il suo compimento. Fino ad una trentina d’anni fa il 4 novembre veniva festeggiato con trombette militari e tromboni democristiani proprio sotto alle statue di Garibaldi (ma andava bene anche Mazzini, anche Cavour, anche un Re Vittorio Emanuele), a significare il sacrificio della Patria, l’alto valore politico di una tale data, a rimarcare l’unità di una penisola che restava mille volte divisa gli altri trecentosessantaquattro giorni.

Garibaldi è stato per lunghissimo tempo il ‘Direttore Generale delle Emozioni Pubbliche’ (Manganelli), l’incaricato del governo unitario alla promozione delle iniziative istituzionali volte a celebrare sobriamente e burocraticamente i giorni sacri della Repubblica. E davvero, al solo sentire il suo nome, generazioni intere di italiani si commovevano, si compattavano, si scoprivano, per un brevissimo momento, migliori.

Ma cosa volete, di acqua (del Po) ne è passata sotto ai ponti (sugli stretti), e oggi i quattronovembri e i duegiugni non si danno se non c’è sfilata di militari: idee eminentemente politiche, e coi mezzi della politica perseguite (non ultimi, la passione e il sacrificio), coperte sotto quintali di mostrine, tute mimetiche e fucili. Lontani quei tempi in cui Bixio (nb: ho sentito pronunciarlo ‘Biperio’) rispondeva sommessamente, sullo scoglio di Quarto, ad un preoccupato Garibaldi che s’interessava delle munizioni: “Quanti fucili?” “Mille” “E quante pistole” “Nessuna”.

Lontanissimi i tempi in cui un cittadino del Nord sfidava un potere organizzato fortissimo e truffaldino con base al Sud per aiutare i suoi fratelli italiani a liberarsi di una malversazione non più sopportabile.

Il Risorgimento, forse, si sarebbe fatto anche senza Garibaldi, ‘magari con qualche variazione d’orario’ (Montanelli), però sarebbe stato un freddo piano politico, un Risiko giocato sulla sola cartina dell’Italia da diplomatici piemontesi e aristocratici mazziniani. E’ solo grazie a Garibaldi -non uomo nuovo, ma uomo lungimirante, uomo completamente del suo tempo- che il Risorgimento è stato un fatto popolare, prima manifestazione di un orgoglio schiettamente nazionale.

Garibaldi è oggi il nome di strade e piazze dove raramente si trova parcheggio. Le sue statue sono mute, buone solo per rubare spazio –appunto- a due o tre vetture, immobili in mezzo alle sempre più trascurate piazze d’Italia. Non più simbolo, né evocazione, l’eroe dei due mondi è il testimone sconsolato di una perdita: di senso, di significati, di valori. Forse è la sorte degli eroi, finire su un piedistallo, e da quel momento tacere, osservare.

Forse sarebbe stato meglio incenerirlo, come voleva, e disperderne le polveri al vento. A Roma si decise, invece, che il poverino andasse imbalsamato. Però, come solo accade alle ‘leggende viventi’ (Dumas padre à propos di Garibaldi), a coloro che si ritrovano oggetto di una mitologia quando ancora sono vivi, capita che un mistero aleggi sulla loro fine: è a Caprera, il Generale, o è stato bruciato su legno d’acacie come voleva? Non lo sappiamo. Io ci scommetto: Giuseppe è ancora in mezzo a noi. E’ sceso dal cavallo di bronzo e ogni tanto, da qualche parte, tuona parole di fuoco.

C’è qualcuno disposto ad ascoltarlo?

P.s.: è uscito da poco in trenta sale italiane (!) un film bello e importante, diretto da uno dei più raffinati cineasti italiani: Noi credevamo. In quel ‘noi’ c’è tutto il senso del film, e forse il senso del nostro essere italiani. Andiamolo a vedere.

 Marzio Maria da Il Cannocchiale

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