Il valore del patrimonio culturale tra sviluppo e memoria

   Tempo di lettura: 10 minuti

Di Antonio Capitano e Marianna Scibetta

“Tutto il nostro passato è con noi, e per vederlo non dovremmo far altro che voltarci”

H. Berson, Il cervello e il pensiero.

Ci sono dei libri che arrivano al momento giusto. Arrivano quando l’attenzione dell’opinione pubblica è rivolta su altre materie considerate da sempre più importanti. Ma spesso le cose più importanti sono quelle che danno ancora un senso a questo nostro Paese che più passa il tempo e più sta franando sotto i colpi di una patologica inerzia che infligge il colpo di grazia su queste precarie fondamenta.

 

Ecco perché la cultura, in tutte le sue forme (anche di gestione), rappresenta l’ancora di salvataggio per tutti noi. Specialmente nei momenti di crisi. Essa è come una scialuppa che porta a riva. Che ci riporta ad una dimensione più coerente con la nostra Storia. 
Questa breve premessa permette di introdurre il pregevole e agile lavoro della Fondazione Astrid che con ha realizzato il paper Beni culturali tra tutela, mercato e territorio a cura di Luigi Covatta (prefazione di Marco Cammelli) Passigli Editore.
Lungi dall’addentrarsi ancora in dispute inconcludenti fra tutela e valorizzazione, fra pubblico e privato, fra centralismo e decentramento, la ricerca di Astrid individua e affronta le principali questioni legate oggi al sistema dei beni culturali.

Dalla tutela, che deve essere attiva e capace di integrarsi con le esigenze di sviluppo del territorio, a prescindere dalla proprietà pubblica o privata del bene, ai restauri, divenuti ormai la principale attività a scapito della prevenzione e della valorizzazione; dalla cura delle cose, invece che dei contesti, alla musealizzazione che ha di fatto cannibalizzato ogni altra forma di fruizione del patrimonio; dall’inadeguatezza della struttura organizzativa di modello ministeriale, al tentativo di individuare possibili forme gestionali differenti e innovative.
Il libro, diviso in capitoli e schede, offre una panoramica immediata dello stato dell’arte e lo fa attraverso uno stile dinamico (valido per tutti gli autori), quasi a voler scardinare l’immobilismo spesso “borbonico” di modelli di gestione che debbono essere totalmente oggetto di una adeguata reingegnerizzazione del sistema al fine di darne moderna veste alla materia, di strutturale importanza per la nazione.

Abbiamo assistito in questi anni al manifestarsi della natura che a volte si ribella alle azioni plasmanti dell’uomo e a volte, indipendentemente dalle manipolazioni antropiche, si manifesta in tutta la sua potente espressione attraverso terremoti e cataclismi che non sempre l’intelletto umano riesce a presagire e mai ad arginare in tempo.
E’ proprio di fronte a questa potenza naturale che l’uomo coglie tutta la sua fragilità e la fragilità delle sue apparentemente “imponenti” opere che incidono sul volto stesso della natura: il paesaggio.
La prima necessità che avverte l’uomo di fronte al pericolo è quella di mettersi in salvo, trovare un riparo, quando non è il riparo che rovinosamente non gli si ritorce contro. Ma subito dopo, e abbiamo recenti testimonianze purtroppo, il successivo bisogno è salvare la propria memoria, riuscire a non alienarsi nella sofferenza e nella fuga. I recenti terremoti in Emilia, all’ Aquila e in Umbria, non molti anni fa, ci hanno portato le immagini della distruzione e le “rovine” di quei monumenti storici nazionali che fanno parte della nostra identità storica , quelle forme inconfondibili di guglie, campanili, orologi, torri, edifici che hanno determinato la rappresentazione mentale di un’Italia che ci appartiene singolarmente nella collettività mnemonica e storica.

Non si è sollevata mai una critica della popolazione colpita da simili sciagure contro il tentativo di salvare oltre alle vite umane, la struttura di un centro storico o di un monumento e di impiegare energie e sforzi sia fisici che finanziari per recuperare le opere d’arte danneggiate o ad alto rischio di danneggiamento. Perché tale rispetto verso le cose inanimate? Verso le immagini diffuse dai mass media dei vigili del fuoco intenti ad imbracare un campanile o a trasportare reliquie e tele dai luoghi di un disastro? La risposta è nella “cosa” stessa, nell’oggetto piuttosto che nelle pietre di un monumento che solo apparentemente sono inanimate. Nel patrimonio artistico e culturale vi è l’anima dell’umanità stessa che la storia vi ha profuso. Vi è una sacralità che appartiene ai luoghi come spazio in cui trova dimensione il presente, ma anche come dimensione parallela ed eternamente presente del passato, un passato che è memoria e in quanto tale è identità ed è senso civico di appartenenza.

La memoria, come fatto psichico non è solo attitudine a ricordare e a conservare dati, immagini, parole, è anche capacità creativa, è una manifestazione viva dello scibile che è continuamente riplasmato e ricreato mentalmente. Allo stesso modo il patrimonio artistico non rappresenta solo un sistema di “reperti” che conservano la memoria di stili, epoche e immagini della storia umana, ma è anche la metafora eternamente presente di un passato che ritorna e ci appare nella sua forma di “lontananza vicinanza”, nell’ossimoro persistente di un divenire storico che procedendo a ritroso si proietta nel presente e nel futuro. E’ la stessa impressione di “attualità” estetica che si avverte nell’osservare un’espressione dell’arte figurativa. Una tela del Quattrocento ci apre una finestra a ritroso nel tempo, ma l’immagine che si vede al di là delle imposte è presente ai nostri occhi, è viva nell’istante in cui la osserviamo e ci porta sulla stessa linea raffigurativa dell’artista che l’ha rappresentata secoli prima. Un tempo distante è invece lo spazio del significato di un’opera, è il significato che muta ed è qui la potenza della capacità creativa della memoria: la trasposizione dei significati, dei simboli, la suggestione che innesca, il rapimento estatico. Platone diceva che “la vera conoscenza è reminiscenza , è memoria dell’origine divina. Conservando questa memoria, le anime sanno di non appartenere a questo mondo, e guardano alla loro immortalità come alla loro verità”. Ecco l’importanza di conservare la memoria di una identità che è allo stesso tempo personale ed universale, visione che appartiene a tutti ed in quanto tale il patrimonio artistico e culturale è stato riconosciuto, da sempre, come bene comune e della comunità, come bene pubblico nonostante il costante e annuale dibattito conflittuale tra demanio pubblico e privato.

E’ indubbio ormai che il patrimonio artistico- culturale oltre che paesaggistico è una fonte di investimento economico che se potesse realmente essere sistematizzata ed inserita in un circuito economico porterebbe alla produzione di un rendimento utile al patrimonio stesso, sia in termini di conservazione sia in termini di risorse reinvestibili in prospettive lavorative ed artistico- culturali nuove e non solo nella logica del revival di un passato che torna. L’attenzione va posta a quelle emergenze naturalistico- paesaggistiche che richiedono un intervento immediato e mirato, volto alla tutela e alla messa in sicurezza dei siti archeologici e di tutte quelle aree di pregio artistico ed architettonico che sono a “rischio estinzione” in Italia, l’Italia stessa è un patrimonio da tutelare, un percorso vivo di arte e storie che si ritrae nell’aspetto urbanistico, nella storia civile, nelle peculiarità geografiche fisiche e politiche oltre che culturali e antropologiche. L’Italia costituisce con le sue “rovine”. con i suoi “scavi”, con i suoi borghi, le sue “vedute” e i suoi “panorami” un museo a cielo aperto di molteplici civiltà storiche e antropologiche nel crogiolo fluido di geni di creatività che hanno influito nella cultura e che continuamente incidono nel patrimonio di una umanità che si ricongiunge all’umanità globale rivitalizzandosi e riformulandosi nella cultura.

Il patrimonio artistico rappresenta anche un ponte tra il gruppo e l’individuo, un ponte che ravvicina le culture, che le riflette o le proietta come attraverso una lente su altri orizzonti. La capacità di un’opera d’arte è quella di creare un “decodificatore” intellettuale di emozioni capace di codificare simboli, di introiettare significati e di trasformarli entro coscienze diverse da quelle originarie dell’artista che ha realizzato l’opera e da quelle di un altro osservatore e della sua emotività. Il patrimonio culturale è un linguaggio completo e immediato, l’immagine allegorica della conoscenza che si compie in una ricerca continua di esistenza e di immanenza, un linguaggio metaforico e meta- cognitivo dell’esperienza umana. Non si può prescindere da questa ricchezza, non si può lasciare indifeso questo patrimonio, né si può permettere di dilapidarlo o confinarlo nei meandri di una burocrazia che è incapace di infondere dinamicità al sistema tutela e di reinvestire. Nel grande “cantiere” della cultura che vive ed elabora progetti sempre nuovi di ponti realizzabili e percorribili tra passato, presente e futuro deve trovare spazio e tempo quel patrimonio artistico che è riconoscimento di sé nell’universale umanità, segno indelebile di una “immortalità intermittente”.
Antonio Capitano e Marianna Scibetta

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