Quando il realismo diventa conformismo, l’industria della prima persona crea un monopolio e la distopia si fa conservatrice, saranno i cani sciolti che verranno a salvarci: su ilLibraio.it . Claudia Durastanti spiega perché c’è bisogno di autrici come Sandra Newman, in libreria con “I cieli”, uno dei romanzi più generosi e liberi in uscita questo autunno.
Che la magia, il sesso e la tecnologia possano essere una nemesi per alcuni romanzieri è risaputo. Non è vero che il talento si misura sulla capacità di controllare questi temi in letteratura, ma è pur vero che trattandoli è facilissimo dimostrare la propria mancanza di ispirazione o di stile, e far affiorare la propria goffaggine.
A batterli tutti in termini di problematicità narrativa, però, è un altro aspetto della vita vera come viene vissuta, e cioè il sogno. Proprio come nessuno ha voglia di ascoltare degli amici che si dilungano nelle descrizioni di come le ex fidanzate si sono trasformate in cani o si lasciano andare a dichiarazioni sorprendentemente rivelatorie in sogno, da lettori ci stanchiamo in fretta quando ci imbattiamo nelle pagine in cui i protagonisti si avventurano in qualche passaggio segreto onirico.
Allora come si tollera un romanzo che si fonda completamente sulla scissione indotta dal sogno e la persona liminare che diventiamo di notte, soprattutto se si tratta di un romanzo americano come I cieli di Sandra Newman (Ponte alle Grazie, traduzione di Laura Berna), e non di una novella russa con la febbre abbacinante dell’avanguardia che tende ad autogiustificarsi e a farsi perdonare questo tipo di slanci solipsistici? Nel caso de I Cieli, lo si tollera con estremo piacere. Uno dei romanzi più generosi e liberi in uscita questo autunno, I cieli è un libro che risponde a regole solo sue, capace di creare un mondo e illudersi che non esista nulla al di fuori di sé. La quale, a ben pensarci, è anche una delle descrizioni più precise della mania e della follia: sentire la tentazione che non c’è nulla fuori, e di essere in sintonia solo con un mondo che si rovina e ci rovina dentro.
Non a caso Newman usa anche l’ipotesi della follia benigna per parlare di Kate, la protagonista del libro, un’originale che vive nella New York dell’anno Duemila di giorno ma di notte assume la personalità e il corpo di una donna controversa dell’epoca elisabettiana, una poetessa e musicista di origini italiane, tale Emilia che forse ha ispirato l’Ofelia di Shakespeare e che legandosi a Will dagli occhi tristi può condizionare il futuro dell’Occidente nell’altro mondo, quello che non vive.Kate ed Emilia, queste due versioni della stessa persona, separate dai secoli e dall’oceano, si innamorano quasi contestualmente, e mentre una si sottrae all’agire del suo presente l’altra sembra rafforzarsi e le colonizza la coscienza e la vita.
»«Dei suoi sogni vivi Kate parla solo con chi si fida, sperando che chi la ama – in questo caso un uomo di nome Ben, un cavaliere che fallisce varie prove – sappia farsi carico della sua missione, accogliendo un’anomalia che si è manifestata durante la sua pubertà. Le pagine in cui Newman descrive l’esordio dei sogni di Kate sono tenere e stupefacenti, oltre che strane: l’aggettivo strano ricorre almeno una trentina di volte nel romanzo, in tutta la sua maestosa stupidità carnale. A dodici anni, quando era all’American International School di Budapest, Kate giocava a sognare Albione, un mondo pieno di canti e alberi in fiore destinato a diventare talmente pervasivo da farle credere che in realtà svegliandosi avrebbe potuto cancellare tutta Budapest e gli abitanti del mondo reale.
All’inizio riesce a coinvolgere le amiche in questo gioco, finché una “ragazza difficile” non le fa notare che sta bluffando e che Albione è solo una vecchia parola per dire Inghilterra. Con il passare del tempo si destano anche tutte le altre da quella cospirazione e Kate sperimenta una specie di solitudine.La bravura di Newman sta nel creare un incanto tale per cui mentre leggiamo desideriamo che questa ipotesi sia reale, che Albione si possa abitare, e torna la condizione solitaria propria di certi momenti dell’infanzia, in cui ci convinciamo di saper lievitare, di aver fatto salti altissimi o aver visto ufo, ma subentra subito la paura di essere presi in giro. Kate invece non ha paura, e la sua assenza di difese è spesso perturbante. Lo stesso si può dire dell’autrice: ha un che di euforico questo volontario rifiuto dei limiti del buon senso, e soprattutto mancava da tempo.
Durante la lettura, il pensiero va proprio lì: al modo in cui ci hanno deformato le storie di avventura e le fiabe nei nostri primi anni da lettori, a come tutto dopo si è presentato come tradimento e contenimento del mondo. Come si fa a recuperare quella dimensione senza affidarsi all’illustrazione o agli effetti speciali, o a trame dichiaratamente di fantascienza? Non è un caso se Kate nella vita non fa nulla, a parte disegnare un murales commissionatole da un amico. Graphic novel, romanzi sci-fi , e film come quelli di Christopher Nolan hanno preservato questa quarta dimensione, che però esiste e deve esistere anche in letteratura con gli strumenti interni al realismo, e propri del realismo.
©Claudia Durastanti per Il Libraio