Un grande cantastorie. Ecco che cos’è stato Tonino Guerra. Un poeta, certo, ma nel significato totale del termine, poeta secondo i canoni della letteratura ma soprattutto secondo l’identità istintiva che gli dà l’immaginario popolare. Il poeta dunque associato a visionarietà, stravaganza, imprevedibilità, bizzarria. E il popolo quasi sempre ha ragione: va oltre la normalità uno che scrive in dialetto romagnolo e che viene tradotto in cinese, e da Mao in persona. Sarà vero, sarà una leggenda, non importa. Rientra negli sconfinati orizzonti fantastici in cui hanno convissuto oltre allo scrittore in versi, lo scrittore in prosa, lo sceneggiatore cinematografico, il pittore, il disegnatore e infine l’inventore di mille preziose cose futili e inutili che però fanno bene allo spirito.
Era nato a Santarcangelo di Romagna nel 1920. Sua madre si chiamava Penelope ed era analfabeta. Fu Tonino a insegnarle a leggere e a scrivere. E lei che non sapeva né che cosa leggere né che cosa scrivere, volle mettersi alla prova e compitò il proprio testamento che il figlio ha conservato per sempre come un tesoro: “Lasio tutti i miei beni a mio marito da fare tutto quello che vole. Carabini Penelope”.
Guerra ha vissuto a Roma per molto tempo, ha viaggiato il mondo, ha incontrato tutti i grandi registi, ha trovato moglie, la dolce Lora nella lontana Russia, ma ha sempre voluto conservare certe radici non solo e non tanto in Romagna, quanto sulla Terra, proprio con la “t” maiuscola. Nella capitale aveva scelto apposta una casa in un quartiere anonimo, per non farsi irretire dalle vacuità del generone romano e di quel demi-monde che circondava gli uomini di cinema. Sul terrazzo si ostinò a coltivare nespoli, ciliegi e pomodori.
Come scrittore era stato scoperto negli anni Cinquanta da Vittorini per Einaudi. Più tardi da Bompiani. Fra i romanzi da ricordare almeno “La storia di Fortunato” e “I guardatori della luna”. (Oggi quasi tutto quello che ha scritto lo pubblica l’editore Maggioli). Ma il suo vero capolavoro è stato la capacità di trasformare la piccola patria di Santarcangelo in capitale della poesia e di portare il suo dialetto a dignità di lingua, fenomeno indagato e commentato nelle università di mezzo mondo. Fu una scoperta di Gianfranco Contini quando lesse la raccolta “I Bu” (I buoi) e innalzò a totem letterario il dittongo, “l’imponente dittongazione” del dialetto santarcangiolese. Quelle processioni di ou, ei, oi, ai, uo e varie altre combinazioni di vocali che miagolano, suonano e rintoccano come se si dessero la voce in un continuo canto e controcanto.
Ecco, rispetto al duro lavoro del cinema, la poesia era la sua uscita di sicurezza. Tonino Guerra accarezzava neanche tanto segretamente l’immortalità, ma non era sicuro che il cinema e i libri gliela avrebbero garantita, così si è affidato anche alla pietra e al ferro. Si tratta di poesie che si leggono in modo diverso, contenute negli oggetti con cui ha riempito il paesaggio. Un esempio imponente è in Val Marecchia attraversata da un favoloso itinerario della fantasia che da Rimini arriva in Toscana in un luogo chiamato Alpe della Luna.
L’impresa non ha data d’inizio. Tutto è come spuntato dal nulla, da una misteriosa intesa fra il poeta e le sue idee, gli artisti che le hanno formate e i sindaci che le ospitano. Si parte da Santarcangelo, giù in basso, dall’osteria La Sangiovesa, una vera osteria, anzi la madre di tutte le osterie e insieme museo, un labirinto di stanze, cortili e cantine in cui la mano del poeta è inconfondibile. Poi si sale verso Pennabilli, la seconda patria dove Guerra ha vissuto l’ultima parte della sua vita. Lungo la strada soste obbligate a Torriana con “L’albero dell’acqua” e Sant’Agata Feltria con “La fontana della chiocciola”. Pennabilli è però il cuore del mondo personale di Tonino, dove la sua vena non ha trovato ostacoli. Non è nemmeno facile descrivere quello che ha lasciato. Un sicuro capolavoro è “L’orto dei frutti dimenticati”, un percorso fra alberi ormai ignoti (la renetta stellata, il pero cotogno, il biricoccolo, la ciliegia cuccarina) e invenzioni ora beffarde ora romantiche. Fra le tante “Federico e Giulietta”, un alberello di ferro battuto con due colombi di bronzo che sembrano foglie e che a una certa ora del pomeriggio danno spettacolo proiettando l’ombra di Fellini e della Masina abbracciati. Proprio accanto c’è una piccola chiesa con un grande dipinto che illustra il famoso “Angelo coi baffi” di una sua poesia, dove un angelo scalcinato, fra gli sberleffi dei suoi compagni, si ostina a dar da mangiare a uccelli impagliati finché questi riprendono vita e volano via cinguetando.
Il museo continua, dentro e fuori dal paese, tra invenzioni, suoni e leggende che danno una dolce ebbrezza. Si arriva fino alla frazione di Bascio nel “Giardino pietrificato”, sette percorsi in ceramica dedicati a personaggi che sono nati o passati di qui. Dal “Tappeto dei pensieri chiari” dedicato a Dante al “Tappeto dei pensieri scuri” dedicato a Pound. Qui il museo finisce, ma Tonino non pensava di aver finito. Anzi. Già immaginava la Val Tiberina con Caprese Michelangelo e il suo genio al quale intendeva rendere omaggio. Chissà quale nuova musica si sarebbe inventato il grande pifferaio magico del Novecento.
bellissimo omaggio a Tonino Guerra poeta dell’anima nei luoghi dell’anima.