Nascere nel 1930 a Fort Worth in Texas, in pieno regime razziale, non deve essere stato facile per quella generazione (e anche per le successive, come sappiamo). La musica, si sa, ha rappresentato per molta gente di colore molto di più che una fuga: è stata una speranza. Coleman ha imparato a suonare il sax a 14 anni e a 15 ha formato la sua prima band. Ma il clima di quegli anni non lo aiutò, ecco perchè a soli 19 anni se ne andò a Los Angeles in cerca di lavoro. Non fu molto facile: il suo proverbiale carattere controverso e le sue idee in fatto di musica di certo non lo aiutavano a trovare una band dove suonare.
Tuttavia incontrò alcuni musicisti con i quali condividere alcuni suoi concetti; gente come Charlie Haden, Billy Higgins e trombettisti del tipo: Don Cherry e Bobby Bradford. Tutti tipini che faranno una bella carriera.
Il suo primo disco è del ’58 si chiama “Something else” e diventa subito chiaro a tutti che quel disco farà da spartiacqua tra un primo e un dopo nel jazz. A leggere le cronache dai siti, molti parlano di un disco “liberato” dalle convenzioni prevalenti di armonia, rito e melodia che aveva governato fin lì l’ascolto: non a caso si parla di “free jazz” da quel disco in poi.
Sono andata a cercarmelo con una certa difficoltà, non nascondo, per capirne un po’ di più. I ritmi sono senza le sincopature tipiche del jazz di quegli anni e l’ascolto risulta facile. Un grande disco. Don Cherry alla tromba; Payne-Higgins ad occuparsi del ritmo; Norris al pianoforte, a cesellare la melodia sul ritmo…
Gli anni 70 li ha passati in giro per il mondo: in particolare in nord Africa alla ricerca di nuovi suoni con le band locali; non è un caso che il risultato di questa ricchezza trovi sfogo negli anni seguenti con collaborazioni con tipetti tipo: Pat Metheny o i Gratefull Dead o Jerry Garcia. Una vera esplosione di suoni.
Coleman è un grande, questo lo si comprende ascoltando uno qualsiasi degli album di quegli anni. Nel 97, leggo, la città di New York gli ha dedicato una quattro giorni durante il Lincoln Festival di quell’anno: un grandissimo tributo ad un autore di musica che ha cambiato il modo di ascoltare il jazz. Lavoro che è stato ricambiato con numerosi premi e lauree ad honorem che le comunità accademiche americane gli hanno riconosciuto, compreso un Pulitzer con onore: il primo del suo genere. Va da sè, il passaggio nella Jazz Hall of Fame è stato breve. Il mio due di coppia ama la parte, diciamo così, più recente della musica di Coleman. Negli ultimi anni, infatti, come altri prima di lui (leggi, Miles Davis), sperimenta ill “jazz elettrico”. Album come Virgin Beauty e Of Human Feelings utilizzano ritmi rock e funky, denominati “free funk” più facili da ascolare. Ma lui ama tutto; meno che la pasta con i ceci. Il brano è, naturalmente, da Something Else, Jayne. Buon ascolto e bentrovati! Alla prossima.
dalla collezione di casa, consigli per gli acquisti.
Per ascoltare “The Shape of Jazz to Come” ci vuole una certa forza. Al primo battito vi verrà da dire: “ma che cavolo è sta roba”. Non preoccupatevi: il piacere verrà da solo. Naturalmente, Something Else. Coleman si era sempre lamentato che gli altri musicisti non lo volessero tra i piedi, che lo ritenessero sempre fuori tono, che dimenticasse i “cambi” e altre cose così. La verità era (ed è) che lui è un musicista libero. Gli altri no. Come prendere un ascensore per un altro pianeta con gli altri che scendono al… “5°piano, grazie!” Si va dal suono metropolitano di “The Sphinx” alla suadente “Jayne” – la composizione più lunga di questo disco, la mia preferita; dai refrains che si memorizzano al primo ascolto di “The Disguise” e di “Angel Voice” al senso di pace e gioia, riposto tra le righe di “The Blessing”,composta già nel 1951 e che qualcuno addirittura accredita come “la sua prima composizione”. Quasi dimenticavo; c’è pure “Invisible”: l’inizio del viaggio, che possiede “quel certo non so che” che, appunto, la trasforma da una semplice composizione all’inizio di un viaggio. Ci sarebbe pure “This is our music” ma è piuttosto difficile.
i libri
Che faremmo senza Nuovi Equilibri e Minimum fax? I soli editori che nel nostro Paese ancora insistono a parlare di jazz. Mannucci ha scritto per il primo la sola biografia in circolazione, mentre per il secondo c’è “Come si ascolta il jazz”; una sertie di conversazione con i grandi della musica tra cui il nostro eroe di questa settimana.
[…] per un arresto cardiaco. Aveva ottantacinque anni. Intorno a Coleman ci ho girato molte volte dedicandogli il giusto tributo qualche tempo fa. Peccato […]