Monk nacque a Rocky Mount (North Carolina) il 10 ottobre del 1917 in una famiglia modesta nella quale la musica era presente grazie alla madre cantante di gospel e spiritual nella chiesa locale; trasferitosi ben presto a New York, Monk iniziò fin da adolescente una vita “on the road” passata a suonare nei locali di stride-piano – i cui echi non lasceranno mai il suo pianismo – dove arricchisce il suo bagaglio musicale. Ciò diverrà fondamentale per la formazione della nuova “cosa” nascente in ambito jazzistico, ovvero il be-bop, che con Dizzy Gillespie, Charlie Parker, Charlie Christian e Kenny Clarke egli contribuì a far nascere.
Ma Monk non era un bopper, o almeno non era “solo” quello; l’adesione al famoso modo di dire dei bopper “io suono la mia musica e non mi interessa se ti piace o no” non era per Monk un atteggiarsi, ma qualcosa di naturale, semplicemente un modo per essere se stesso. E la sua storia musicale orgogliosamente autarchica lo dimostra apertamente.
Giorgio Gaslini sottotitola un bel libretto sul pianista uscito anni fa (ora esaurito) per Stampa Alternativa “La logica del genio, la solitudine dell’eroe”, perché questo in effetti è stato Monk: un genio solitario, psichicamente disturbato sì, ma i cui patimenti interiori non gli hanno mai impedito di essere lucido e logico, perennemente chiuso nella sua ricerca dalla quale una fanciullesca innocenza di fondo l’ha portato ad escludere l’evoluzione verso una maturità “pesante e retorica” (come la definisce Gaslini).
Ed è proprio questa una delle cifre stilistiche del pianista del North Carolina: la sostanziale, cosciente e programmata mancanza di progressione musicale che viene sostituita dall’esplorazione orizzontale di un pugno di brani, un lavoro costante e caparbio di cesello a cercare nuove combinazioni, a centellinare note e a dilatare pause e silenzi in un modo del tutto personale ed imprevedibile, considerando l’errore come un mezzo per intraprendere nuove strade (sarà lui a dire al termine di un’improvvisazione “I made the wrong mistakes“, ovvero “ho fatto gli errori sbagliati”). La musica di Monk, infatti, non è lineare, procede a strappi, obliqua, carica di accordi aspri e di pause riflessive inaspettate; il fraseggio è frastagliato e – grazie anche al suo modo di suonare a dita piatte – privilegia l’approccio percussivo e la ricerca armonica piuttosto che quella tematica.
E proprio l’armonia fatta di accordi che paiono stridere tra loro tanto da farla sembrare “sbagliata” e lo sviluppo ritmico asimmetrico fatto di ritardi e di accenti spostati saranno due elementi che in futuro influenzeranno moltissimi jazzisti – lui che non ha mai avuto allievi e che era piuttosto disinteressato a quello che gli girava attorno – e allo stesso tempo li metteranno in difficoltà, come è successo a Miles Davis che – nell’unica sessione registrata assieme – pretese che Monk non suonasse sotto il proprio assolo per non rischiare di esserne confuso.
Thelonious Monk morì a Weehawken nel New Jersey il 17/02/1982, dopo dieci anni che non usciva di casa, in compagnia dell’amatissima Nellie – al suo fianco per tutta la vita – e dei suoi fantasmi, paure ed ossessioni che quella vita l’hanno resa un inferno. Mi piace concludere questa breve presentazione con una frase di Arrigo Polillo nel suo fondamentale libro “Jazz”: “Qualcuno ha detto che, negli anni in cui nessuno sembrava interessarsi a lui, Monk era fermo in attesa che il futuro lo raggiungesse, facendo capire così la musica sua. Dopo, si è limitato a lasciare che gli altri lo ascoltassero. Se volevano: a lui non importava più che tanto”. Chissà se quel futuro ora è arrivato.
Dallo scaffale di casa: consigli per gli acquisti
Da punto di vista numerico Monk lascia moltissime composizioni – da Well, you needen’t del 1947 a Blue sphere del 1971 – tra cui capolavori assoluti come ‘Round midnight (un’icona del jazz!), Pannonica, Blue Monk, Straight no chaser, Epistrophy, In walked Bud, Ruby my dear, Rhythm-a-ning, la già citata Well, you needn’t che sono tuttora campo di lavoro per i jazzisti di tutto il mondo. Diverso il discorso sui dischi: Monk era musicista da “brani” più che da “dischi” tanto che – forse con un’unica eccezione – è difficile trovare un suo “disco di riferimento” come succede per molti altri artisti; lascia, infatti, un buon (e disordinato, soprattutto per i primi anni) numero di dischi tra i quali, ve ne segnalo cinque a mio insidacabile giudizio: 1, Genius of modern music – vol.1 (Blue Note – 1989) 2. Brilliant corners (Riverside – 1956) con Ernie Henry, Sonny Rollins, Oscar Pettiford, Max Roach (Clark Terry e Paul Chambers in Bemsha swing) 3. Misterioso (Riverside – 1958) con Johnny Griffin, Ahmed Abdul Malik e Roy Haynes 4. Alone in San Francisco (Riverside – 1959) e 5. Live at the It club – complete (Columbia – 1964) con Charlie Rouse, Larry Gales e Ben Riley
Il pezzo da You Tube è, naturalmente, Round midnight. E’ tutto per ora; buon ascolto e alla prossima!
i Libri
E’ di questi giorni l’uscita da Minimum Fax, il solo editore che, con coraggio, continua a pubblicare libri e biografie di jazz. La scheda che segue è la loro.
La figura di Thelonious Monk (1917-1982) è da sempre tra le più apprezzate dagli studiosi e dagli appassionati di jazz. Eppure spesso ne è stato offerto un ritratto parziale, quando non distorto: quello di un genio eccentrico, di un uomo mentalmente disturbato, di un musicista primitivo e naïf. Questa biografia rimette finalmente nella giusta prospettiva critica la vita e la musica del grande pianista-compositore. Grazie a un lavoro di ricerca durato più di dieci anni, durante i quali l’autore ha avuto accesso per la prima volta ai documenti e ai nastri privati della famiglia Monk, scopriamo un Thelonious diverso: un musicista pienamente consapevole della propria arte, determinato a lottare senza compromessi per difendere la sua visione musicale; un individuo sensibile e spiritoso, che malgrado gli eccessi comportamentali conquistava immancabilmente la stima e la simpatia del prossimo; un uomo attentissimo alla realtà sociale, che nella musica vedeva anche il mezzo per affermare la possibilità di un mondo migliore. Selezionato dal New York Times fra i 100 migliori libri del 2009, finalista al PEN USA Literary Award, premiato come miglior libro sul jazz dalla Jazz Journalists Association, Thelonious Monk. Storia di un genio americano è destinato ad affermarsi come l’opera definitiva su un gigante indimenticato del jazz.