Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio sto per cacciarmi, chiudono gli occhi di nostalgia al ricordo di quando fluttuavo libero nel mio sacco opalescente, a spasso dentro la bolla sognante dei miei pensieri, tra capriole al ralenti in un oceano privato, e delicate carambole contro i confini trasparenti della mia prigione, quella membrana sicura che, pur attutendole, vibrava insieme alle voci di cospiratori intenti a una macchinazione odiosa. Succedeva nella spensierata stagione della mia giovinezza. A questo punto, ormai completamente capovolto, con le ginocchia schiacciate al petto e senza margine di movimento, non ho soltanto la testa impegnata ma anche tutti i pensieri. Non ho più scelta, un orecchio è premuto giorno e notte contro le pareti irrorate di sangue. Ascolto, prendo appunti mentali, e mi preoccupo. Tra lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi.