Quando nel 1932 Louis-Ferdinand Céline diede alla stampe il suo primo romanzo, Voyage au bout de la nuit, nel coro di lodi per il capolavoro non mancò la voce di Georges Bernanos. Secondo lo scrittore cattolico e monarchico l’esordiente collega anarchico e miscredente era stato “creato da Dio per dare scandalo”. Col passare degli anni forse la situazione si capovolse e più che scandalizzare il mondo Céline finì per esserne scandalizzato.
Alla fine della Seconda Guerra mondiale vedeva lo scandalo non più negli ebrei, bersagliati qualche tempo prima in un paio di ignobili e famigerati libelli antisemiti, ma nel trasformismo vigliacco della società francese, nella forsennata ricerca di vittime espiatorie (in fondo imparentata con quella messa in atto dagli sconfitti nazisti) nella riduzione della realtà a “féerie”, farsa, pantomima. Tutti sembravano ansiosi di ben recitare il ruolo del giustiziere e a lui toccava quello del capro espiatorio, del “noto venduto traditore fellone” da squartare e gettare ai cani per lavare la coscienza collettiva.
Con questo spirito scrisse, o meglio eruttò una delle sue opere più violente, dolorose ed addolorate: Ferie pour une autre fois, (tradotto magistralmente da Giuseppe Guglielmi con il titolo Pantomima per un’altra volta per Einaudi, ora nuovamente disponibile in catalogo dopo la prima edizione del 1987). Si tratta di un lungo monologo, sorretto dalle tipiche ossessioni stilistiche celiniane (punti di sospensione, esclamativi, turpiloquio) che racconta la vita del medico e scrittore negli ultimi mesi del 1944, mentre le sorti del conflitto sembrano ormai decise contro i Tedeschi. A Parigi Céline vede spuntare gollisti dappertutto, ma più che altro percepisce l’annusare famelico di chi è pronto a mettere le mani sui suoi beni. Viene considerato un collaborazionista, dovrà pagare il fio, lasciare le sue cose nelle mani dei saccheggiatori democratici. “L’odio alla moda” ora muove le masse non più docili e sottomesse come sotto il regime di Vichy, da più parti si invoca un “mattatoio nazionale totale” che lavi nel sangue di tutti coloro che si sono compromessi con Germania la vergogna nazionale. Nella “centrifugazione degli odî” Céline sa di rischiare grosso, nonostante mai abbia appoggiato apertamente Pétain né abbia scritto su riviste collaborazioniste. Basta però la sua fama di maledetto, bastano quelle sciocchezze violente scritte contro gli ebrei per crocefiggerlo nel nome della patria redenta.
La guerra finisce ma non è di pace che si ragiona (“l’Epoca è generosa in niente, tranne in macellerie”). Contro i capri espiatori si precipitato “Iconoclasti, sbronzi di Virtù” che si autopromuovono “Guillotin, impiccatori”, l’atmosfera ricorda proprio quella del Terrore giacobino, anche se ora “la Bastiglia la lascerebbero in piedi, ci rinchiuderebbero tutti gli impuri”. Quell’orgia giustizialista, quel furore purificatore non portarono Céline sulla forca; fu graziato non per i meriti artistici ma perché ancora pesava la medaglia al valore conquistata nelle trincee della Grande Guerra. Poté così continuare a medicar i poveri e a scrivere fino alla morte, avvenuta nel 1961. Però Céline così spaventato dagli sciacalli che annusano la sua carcassa, così umano e sofferente mentre sconta con carcere duro ed umiliante le sue colpe e dedica l’opera “agli animali, ai malati, ai prigionieri”, che finisce nella finzione seppellito in una discarica, ha qualcosa di veramente grandioso, di scandaloso nel senso pienamente cristiano (aveva ragione Bernanos, allora). Reo di aver cercato capri espiatori negli ebrei, si ritrova messo in croce dai benpensanti che si sentono assolti senza alcun merito. Molto più rispettabile lui, “uomo delle mistiche che non pagano” di quanto lo fosse Jean Paul Sartre che si accanì contro l’autore del Voyage con un articolo davvero poco generoso e molto fazioso nel 1947. Quel Sartre che diventerà l’autore di riferimento della sinistra postbellica, uomo di mistiche ben pagate, ribattezzato “Latron” nella Pantomima di Céline, silente al cospetto dell’Olocausto quando conveniva non alzare troppo la voce, ci sembra molto meno degno di rispetto.
Luca Negri per l’Occidentale