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Hygge è un termine danese che mi è molto caro.
Hygge è un modo di essere, è la sensazione di sentirsi protetti, sicuri, il rifugiarsi in un luogo caldo. È un’esperienza individuale e al contempo di comunione con gli altri, cercarla significa favorire l’intimitàe l’empatia. Hygge rafforza i legami, da valore al presente, avvicina le persone. Hygge riguarda l’essere, non l’avere. Hygge è un modo di dare a ciò che è normale una sfumatura speciale, di infondere spirito e calore al quotidiano, prendendosi tutto il tempo che serve per renderlo straordinario.
Forse era questa l’atmosfera che voleva ricreare quando nel 1919 Akbar Ali Khan salpa dal porto di Bombay con la giovane moglie sulla nave diretta a Durban, dove sbarca per dare inizio alla loro nuova vita. Qui inizia ad investire e creare la sua fortuna e sulla cima della collina che domina il mare costruisce una magione, una villa bellissima: Akbar Manzil. Sfarzosa, piena di colonne, con cupole di cristallo, archi e torri e chi arriva dal mare non può non notarla. Non contento riempie il grande giardino di scimmie, pavoni, variopinti uccelli tropicali, una Giraffa vaga per il giardino e ben custodito, in una gabbia, addirittura un Leone.
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Più di ottant’anni dopo, quando Sana, costretta dal padre ad un nuovo trasloco per tentare di dimenticare il dolore per la morte della moglie, arriva a Akbar Manzil essa è oramai ridotta ad un fatiscente residence, che diviso in piccoli appartamenti ristrutturati alla bell’e meglio ospita tra corridoi in rovina e muri pericolanti pochi ospiti. Le persone che vengono qui lo fanno per dimenticare o per farsi dimenticare: “Sana sa che le persone possono assumere tante forme: spezzate e intere, piene e vuote, ma non ha mai visto questa. La donna che siede di fronte a loro possiede una qualità frantumata, quasi fosse vetro. Se la si osserva con attenzione, si viene ricambiati da mille riflessi”.
Sana è una ragazzina che ama stare sola, e passa i pomeriggi nella casa girovagando nei corridoi a sbirciare, spalancare porte, curiosare nei cassetti cercando di riportare in vita i dimenticati abitanti di quella casa, cercando di scoprire la loro storia, ricostruire le vicende che hanno portato a quel decadimento, affascinata da quella grande e strana casa. E pian piano la casa si risveglia, Sana scopre indizi, ascolta i sussurri, coglie mormorii tra le cose dimenticate e si accorge di una presenza, oltre alla sorella morta che ancora torna a trovarla e le parla. E’ un custode, un demone, un jinn che pervaso del dolore di quello che è successo tra quelle mura continua ad aggirarsi in quelle tetre stanze.
E come se guardassimo in un caleidoscopio, l’autrice sudafricana ci mostra le sue pagine ricche di una trama avvincente che con efficaci flash back ci riporta alla intensa storia d’amore tra il ricco proprietario della casa e Meena, una povera lavorante nella sua fabbrica. Ci mostra l’ira della prima moglie e il livore della madre di Akbar Ali Khan nel non riuscire a dissuaderlo da questo secondo matrimonio; ma soprattutto ci mostra come lo spirito di una casa tenta di sopravvivere ad un grande dolore, di cui è stata testimone.
E’ un libro ricco di suggestioni, intesse la trama di un avvincente thriller con una intensa e tormentata storia d’amore e un sottofondo misterioso ed inquietante: il risultato sono una miriade di caleidoscopiche emozioni.
La Khan lascia che queste emozioni si intrufolino anche nei sensi di chi legge, in modo che anche lui non possa più guardare una casa, una stanza, un giardino solo con i suoi occhi, ma anche con quelli dello scrittore: infatti, tra chi scrive e chi legge, le emozioni sono legate a filo doppio. Ci dice ancora: “Certe cose non rivedono mai la luce. Gridano, battono i pugni contro il destino, nella speranza di essere scoperte. Una lettera dimenticata, un bottone d’avorio in un divano. Un’impronta sulla finestra. Queste cose fremono di rabbia per la loro palese irrilevanza. Alla fine si placano: respirano a fondo. Si rassegnano al destino e contemplano il tempo che scorre. Ma continuano a sperare. Sperano che un giorno qualcuno le scoprirà”.
E sarà proprio Sana, a dar loro quella speranza.
per BookAvenue, Marina Andruccioli
il libro:
Shubnum Khan,
Lo spirito aspetta cent’anni,
Neri Pozza editore
ed.2024, pp.320
tradotto da Simona Fefè
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