Le belle contrade. La nascita del paesaggio italiano

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ndr.questo articolo di Antonio Capitano è stato pubblicato il 15/5/2019

La casa editrice “Il Saggiatore” prosegue il progetto di rivitalizzazione del corpus delle opere di Piero Camporesi ripubblicando “Le belle contrade” con un sottotitolo “la nascita del paesaggio italiano” utile a comprendere la genesi del dialogo tra uomo e natura, vita materiale e costruzioni culturali.”Nel Cinquecento non esisteva il paesaggio, nel senso moderno del termine, ma il “paese”, qualcosa di simile a quello che per noi è oggi il territorio” un’Italia “minore” di cose e di genti. Un libro prezioso, denso di attuali spunti

 

La mirabile prefazione di Giorgio Boatti introduce uno di quei volumi, piacevolmente rivisto in libreria, che si può considerare a pieno diritto un grande capitolo della ricostruzione della sensibilità comune, in tempi che necessitano di una nuova “unificazione” nazionale.

In questo senso “Il Saggiatore” prosegue il progetto di rivitalizzazione del corpus delle opere di Piero Camporesi ripubblicando “Le belle contrade” del 1992 con un sottotitolo essenziale: la nascita del paesaggio italiano; un libro importante e affollato di vita materiale con suggestive costruzioni culturali.

Sin dall’inizio Caporesi, con una scrittura vivace e attenta al più piccolo dettaglio, chiarisce il significato di concetti spesso dati per scontati o non abbastanza conosciuti “Nel Cinquecento non esisteva il paesaggio, nel senso moderno del termine, ma il “paese”, qualcosa di simile a quello che per noi è oggi il territorio”. Questa “precisazione” dell’autore è necessaria per capire che quello italiano è un paese visto dal basso, osservato dalla bottega, dalla piazza, dall’aia, dall’osteria. Insomma lo sguardo di Camporesi ci fa vedere un’Italia di cose e di genti, di mestieri e di antimestieri, di affari e di malaffari. E così la visione aerea, dall’alto, sperimentata dal Petrarca che scala nel 1336 il suo Monte Ventoso, rimarrà uno splendido caso isolato.

Immagini “paesaggisitche”, scorci “panoramici”, “viste” pittoresche sono impensabili per gli uomini del Cinquecento: il loro occhio – afferma Camporesi –“perlustra con particolare attenzione la concretezza ambientale o la realtà della geografia umana”. A questo punto il “ricercatore” Camporesi ci porta a conoscenza di personaggi “blasonati” come tal Francesco Guicciardini (il quale descrive piuttosto l’ambiente che il paesaggio) o figure “minori” dai nomi suggestivi come Teofilo Folengo, Vannoccio Biriguccio, Cipriano Piccolpasso; il tutto con gustose testimonianze che rendono il volume avvincente.

Ma è proprio l’Italia minore ad interessare l’autore , è il paese delle arti meccaniche e dei mestieri della mano, dal quale la geografia del lavoro emerge con prepotente vitalità. I prodotti di questa cultura materiale, bottegaia, artigianale, campagnola, costituiscono per Camporesi le più “notabili”, le più “memorabili” , le più “mostruose” (nel senso antico di “meravigliose”) “cose” d’Italia.

Il libro è ricchissimo di curiosità e al tempo stesso di spunti attuali. E’ un contenitore pieno di rimandi e anche le note poste nelle ultime pagine del volume sono, in realtà, importanti per entrare nelle numerose porte aperte da Camporesi.

Par di sentire forti gli odori, anche sgradevoli, quando l’autore dedica spazio alle miniere e ai metalli con il mondo desolato delle motangne metallifere che si anima talvolta di strane e indefinibili presenze umane, di gente di brutta cera, dall’aspetto tribolato e malasano come se un segreto rapporto genetico legasse le terre aride, ricche di minerali ai suoi sparuti “abitatori”, fra puzzo di zolfo e di ferro.

Parlando, invece, di acque e città invisibili Camporesi fa parlare il veneziano Bartolomeo Fontana per collocare Bologna al primo posto sorprendentemente fra le città degne di essere vedute soprattutto per l’ingegnosità delle sue opere idraluliche e per l’alta tecnologia delle sue manifatture.

Ancora una volta l’Italia dal basso, operosa e operaia prevale sugli aspetti puramente paesaggistici.

Può dunque destare una certa sopresa scoprire che lo Stivale apparisse all’epoca, più che un “bel Paese”, una grande officina di industriosi artigiani, una terra di mastri, di artieri, di mercanti, di banchieri, di marinai, di ingegneri, di architetti; più che un paese di artisti dediti al culto del belli, “un grande cantiere di macchine, di gnomi operosi”.

L’opera di Camporesi è davvero una delizia visiva e pagina dopo pagina, passando per mari e litorali si giunge ai paradisi di acqua , di aria e di vento. L’autore con efficace sintesi aggiunge alla sua ricerca immagini immediate per cui l’indagine sull’aria cinquecentesca per l’investigatore di buone terre e di salubri paesi equivale, in un certo senso, allo studio della luce per il pittore.

Le strade che portano alla scoperta del paesaggio possono così passare dalla rotta della salute, sulla pista dell’acqua e dell’aria non corrotta da miasmi e da cattivi venti.

Un libro, autentico e onesto, da leggere per chi non conosce Camporesi e da rileggere per riscoprire, ancora una volta, “le belle pagine” scritte nella forma di un dipinto, dietro l’angolo del tempo.

Antonio Capitano

 

Le Belle Contrade, Piero Camporesi, Il Saggiatore – Ottobre 2016 – pagine 216 – € 22,00

L’autore : Piero Camporesi (Forlì 1926 – Bologna 1997) è stato un filologo, storico e antropologo italiano. Ha insegnato Letteratura italiana nella facoltà di Lettere dell’Università di Bologna. Tra i saggisti italiani più conosciuti al mondo, i suoi libri sono stati tradotti nei principali paesi europei, negli Stati Uniti, in Brasile e in Giappone.

l’articolo di Antonio Capitano è uscito su Il Giornale delle Fondazioni ed è pubblicato con licenza dall’Autore

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