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I titoli tradotti male non sono una prerogativa del cinema: A Venezia un dicembre rosso shocking (don’t look now), Per favore non toccate le vecchiette (The producers), Vogliamo vivere! (To be or not to be) e l’intramontabile Non drammatizziamo… è solo una questione di corna (Domicile conjugal) hanno il loro equivalente letterario, solo che se ne parla meno.
Qui di seguito perciò un elenco di tipologie di traduttori e relative responsabilità: >>

*I google-book-translators: ben prima che inventassero questo efficace strumento di traduzione, esistevano già traduttori integerrimi, plurilingue perentori, interpreti inflessibili. È grazie a uno di loro, Giorgio Caproni, ad esempio che “Mort a’ credit” di Celine (letteralmente morte inutile) è arrivato a noi sotto forma di un’enigmatica “Morte a credito” (1964). Altrettanto di parola Koch e Porena, le traduttrici che si sono fatte carico del “Westostlicher Divan” di Goethe consegnando poi agli italiani un comodo “Divano occidentale orientale”; solo che il “Divan” del persiano Hafez – cui il libro del tedesco si ispira – era stato tradotto precedentemente come “Canzoniere”. Tra gli umili servitori dell’idioma va ricordato anche Gabriele Baldini, il primo traduttore di “Measure, for measure” (con la virgola, per Dio!) del sommo Shakespeare cui confeziona una traduzione su misura, senza nemmeno un guizzo da stylist. C’è poi la solita gente in giro che giura di possedere copie di Oliviero Twist.

*I pruriginosi: alla seconda categoria appartengono gli inguaribili estimatori dell’Ubalda, quelli segnati a vita da uno spogliarello intravisto dal buco della serratura. Siamo nel 1960, a Milano, in Via Mecenate 91. Il traduttore F.P. bussa alla porta di Valentino Bompiani e gli dice, testualmente: “Ho finito di leggere il libro. Propongo come titolo, si tenga forte: “La ragazza di Tony!”. “Accettato, vada pure”. Così è andata la storia della prima stampa italiana di “Goodbye, Columbus” di Phillip Roth, che l’Einaudi ha poi riportato alla sua verginità ma era ormai troppo tardi: per quanto rare, copie in giro della ragazza di Tony se ne trovano ancora, e – sia detto per inciso – ogni rothiano degno di questo appellativo dovrebbe averne una.

*Gli spoilers: gli spoilers sono i rovinatori di finali. Se vuoi male a un lettore di gialli, digli come va a finire. Il massimo dell’ironia che un appassionato di thriller accetta è quella sul maggiordomo, per quanto monotona. Grida perciò vendetta l’anticipazione così spudorata resa dal titolo “E liberaci dal padre” (quello originale “a Great Deliverance”) di Elisabeth George, il primo dei suoi romanzi gialli pubblicato in Italia nel 1989 (un anno dopo l’uscita americana). I più oltranzisti gli stanno dando ancora la caccia.

*Gli stessi delle scie chimiche: la gente al mondo ha bisogno di provare una moderata suspence, perciò anche molti lettori vanno lì dove il mistero incuriosisce senza terrorizzare, dove il brivido si fa brividino, insomma lì, nel buco nero illuminato. D’altronde, avranno pur fatto delle verifiche di marketing per cui basta aggiungere una parola magica nel titolo e le vendite aumentano, o no? Gli appartenenti a questa categoria pertanto si sentono (e sono trattati) come dei traduttori di serie B, nell’ambiente sono derisi per le teorie complottiste, ma il successo delle vendite dà loro ragione:

  • “Il linguaggio segreto dei fiori”, di Vanessa Diffenbaugh, (titolo originale: “The Language of Flowers”)
  • “Gli ingredienti segreti dell’amore”, di Nicolas Barreau, (titolo originale: Das Lächeln der Frauen, in italiano “I sorrisi delle donne”).
  • “Il cimitero dei vangeli segreti”, di Ted Dekker, (titolo originale: “The Priest’s Graveyard”)
  • “La scuola degli ingredienti segreti”, di Erica Bauermeister, (titolo originale: “The school of essential ingredients”)
  • “Il gusto segreto del cioccolato amaro”, di Kevin Alan Milne, (titolo originale: “Sweet Misfortune”)
  • “Il segreto della collana di perle”, di Jane Corry, (titolo originale: “The Pearls”)

Non è segreto ma entra a pieno titolo nella categoria anche

  • “Il gusto proibito dello zenzero”, di Ford Jamie (titolo originale: “Hotel on the corner of bitter and sweet”)

 

*Gli stronzi: gli stronzi sono, come in tutte le categorie, quelli che si sentono più a loro agio in questo decadimento editoriale gravato dalla fretta, dal virus letale del refuso, dall’importanza ancora rilevante riconosciuta ai consulenti di marketing. Allora cosa fanno? Riescono con la loro malizia spicciola a spacciare un libro pesante per un’abbordabile storiella, in base alla nota tecnica romana del “magari ce caschi”. Qui finisce “Lo que esconde tu nombre”, di Clara Sànchez, un libro su una coppia di criminali nazisti che riescono a farla franca nascondendosi in Costa Blanca da dove progettano nuovi crimini contro l’umanità ma che invece – nella versione italiana – passano il tempo ad annusare “Il profumo delle foglie di limone”. E qui c’è spazio anche per “Il bambino con i petali in tasca”, di Irani Anosh. Senza dubbio il titolo fa presagire poesia e struggimento, ma non di certo la tragedia di un bambino chiuso in un orfanatrofio ai confini di Bombay che scopre cosa sia la sopravvivenza in una metropoli aggressiva quando, partecipando a un grande attentato ad un tempio, rimarrà ferita l’unica bambina con cui ha fatto amicizia: vi ho rovinato la lettura? (titolo originale: “The song of Kahunsha”)

*I miglioristi: ci sono per fortuna anche casi di travisamento a fin di bene cui va attribuito un bel po’ del successo italiano di un libro. Quello più citato è sicuramente Il ricevitore nella segale, detto altrimenti anche il terzino nel whisky, che fortunatamente ci è noto come “Il Giovane Holden”. E per quanto ci ravvisi un intento censorio, bene ha fatto anche chi ha reso “Lo stupro della serratura” di Alexander Pope (“The rape of the lock”) con “Il ricciolo rapito”.

* I drogati: si sa, il mestiere del traduttore è duro: ti pagano poco, per il mondo non sei nessuno e può capitare di restare schiacciati nella trappola infernale della droga. Massima solidarietà va dunque ai nostri amici traduttori di “Felidae” > “La società dei gatti assassini” e “Dicembre è un mese crudele” “Missing Joseph”.

*I traduttori senza qualità: il dibattito sui titoli imprecisi si anima sempre quando citi Anita Rho. La Rho è colpevole secondo i puristi di aver tradotto “Der Mann ohne Eigenschaften” di Musil in un superficiale “L’uomo senza qualità”, quando in realtà ciò che manca al protagonista non sono le qualità bensì le eigenschaften, vale a dire delle caratteristiche personali, delle proprietà, volendo forzare un po’ la mano: la personalità. “L’uomo senza personalità” poteva piacerci lo stesso? Più defilato ma altrettanto sconcertante è il caso di “Our gang” di Philip Roth capace di diventare simultaneamente nella traduzione italiana un titolo brutto; per niente vicino a quello originale; che non significa niente né ti fa venire voglia di scoprirlo: “Cosa bianca nostra” (ancora una volta Bompiani). Colpa di gruppo invece cade su “Le braci” di Sàndor Màrai, tradotto da 16 mani e 4 lingue, perché il titolo originale tradotto fedelmente avrebbe dovuto essere “bruciare le candele fino in fondo”, che è una perfetta metafora di quel che avviene nel romanzo. Chi ha dato il diritto a questo staff di translators di trasferire il titolo da una candela al caminetto se non al barbecue?

*I raccomandati: i traduttori di “Tonio Kroger”, “I Buddenbrock”, “Me parlare bello un giorno”.

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