In occasione del Premio Nobel all’autrice coreana, ripubblichiamo la recensione (dell’autunno del 2016) a due voci de “La vegetariana”a cura di Silvia Belcastro e Michele Genchi (all’epoca residenti l’una a Francoforte l’altro a Roma).
Cari lettori,
abbiamo pensato di recensire in modo diverso dal solito il romanzo “La vegetariana” dell’autrice coreana Han Kang, vincitore del Man Booker International Prize 2016 ed edito in italiano da Adelphi. Nonostante la sua brevità, si tratta di un libro che genera interrogativi, emozioni e riflessioni laceranti. Vi proponiamo quindi un dialogo a distanza tra due di noi: Michele e Silvia.
Nonostante la lontananza, questo scambio ci ha fatto sentire vicini come se fossimo seduti davanti a un caffè. Perché non è così che ci fa sentire la lettura di un buon libro? La nostra è stata quindi una conversazione a due voci, un esperimento poco praticato nel web (a parte le interviste) e abbastanza raro anche sulla carta stampata.
All’interno di Bookavenue ci è già capitato di raccogliere più di una testimonianza da parte dei componenti della redazione: impossibile dimenticare il duello Manduca-ElSayed sulle “Sfumature”, Michele e Marco Crestani su “Solaris” di McEwan, e ancora Marco e la stessa Silvia, che hanno raccontato entrambi “Amica della mia giovinezza” di Alice Munro. Ma questa volta è diverso: ci ha spinto l’urgenza di raccontare un’esperienza di lettura importante per entrambi e il desiderio di capirla più a fondo. Più che raccontarvi il libro, vi abbiamo quindi raccontato le nostre emozioni. In coda troverete anche alcuni link italiani, che abbiamo selezionato per aiutarvi ad avere un’idea ancora più completa di questo piccolo, tagliente gioiello letterario.
(ndr. Data l’estensione, l’articolo è anche scaricabile -e stampabile- per una lettura successiva.)
Ciao Silvia.
Insomma, leggendo “La vegetariana” il Man Booker Prize dello scorso anno mi sembra del tutto guadagnato. E nonostante il titolo, forse fuorviante, sembra del tutto giustificato anche il clamore della stampa e il largo consenso dei lettori. Non ti nascondo quanto la lettura del libro mi abbia turbato. Mi ha turbato la progressiva rinuncia a esistere della protagonista. Altro che dieta vegana! Non credi? Mi è sembrata la storia di un’ossessione nata per una scelta consapevole, poi trasformatasi in una catarsi del corpo…
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Ciao Michele!
Ho letto La Vegetariana all’inizio di novembre per un Club del Libro qui a Francoforte. Ricordo le tre serate in cui l’ho letto: ore di intensa lettura, fino alla stanchezza. Era molto tempo che non incontravo un libro così imperioso!
Si, la lettura ha turbato anche me. Sulle prime era una repulsione fisica per gli aspetti estremi della storia: la sofferenza del corpo, la follia, la violenza fisica, la tortura psicologica, la deprivazione di cibo. Poi tutto questo è svanito per lasciare il posto a un messaggio sottile. C’è un’istanza potente in questo libro, interpretata dalla voce flebile – eppure solidissima – della protagonista: è il diritto a dire “no” alla brutalità del mondo. Diritto che passa anche per una rivendicazione filosofica della morte.
Ti confesso che l’esperienza del Club del Libro (di Francoforte ndr.) mi ha scioccato di più del romanzo stesso, per via della discussione che il libro ha generato. Mi ha fatto riflettere sulla relazione fra scrittore e lettore, su cosa la letteratura genera nella mente delle persone. I partecipanti si rubavano la parola per etichettare i protagonisti: “Yeong-hye è anoressica! É malata di mente!”, “la sorella avrebbe dovuto costringerla a mangiare!”, “la sorella è una persona migliore perché è integrata nella società, ha un marito e un lavoro!”. E ne ha prese anche l’autrice: “si vede che è una storia scritta da una donna!” (come se l’essere stato scritto da una donna rendesse un libro meno pregevole…). E tutto questo anche se nel romanzo le parole “follia” e “anoressia” non compaiono mai.
Ero affascinata dalla potenza di ciò che stavo osservando, perché di fronte a me c’era un microcosmo di persone che riassumeva le ideologie di grandi gruppi sociali. Lettori di ogni nazionalità difendevano o attaccavano i protagonisti come se fossero persone reali. Le emozioni andavano dalla pietà alla rabbia al disgusto, ma il denominatore comune era il rifiuto di uno o più aspetti della storia. Sentivamo i nostri valori messi in gioco: non parlavamo di un libro, ma tramite un libro! Insomma, attraverso un’opinione su “La Vegetariana” difendevamo l’impianto ideologico delle nostre vite. I grandi libri fanno questo? Forse si. Allora davvero “La Vegetariana” vale il premio che ha ricevuto.
Ma secondo te, perché è così difficile accettare la scelta di Yeong-hye di trasformarsi in una pianta per non partecipare alla violenza del mondo? Perché abbiamo bisogno di etichettare la sua follia? Non trovi che i romanzi estremi come questo portino il lettore a rivelarsi di fronte a se stesso e al suo sistema di valori? Pensavo a due romanzi “estremi” che amiamo entrambi e di cui abbiamo parlato molte volte: Cecità di Saramago e La strada di Cormac McCarthy. Non funzionano allo stesso modo? Voglio dire… Michele, cosa faremmo tu ed io se fossimo la moglie del medico di Saramago o il padre del bambino in La Strada? Cosa faremmo se fossimo la sorella di Yeong-hye, che smette di mangiare perché rifiuta di appartenere alla specie umana? Cosa faresti tu di fronte alla rivendicazione filosofica che Yeong-hye fa della morte? Cosa le diresti di fronte alle sue parole sorridenti: “Perché, è così brutto morire?”
Sappiamo che la letteratura è un porsi domande estreme sentendo che il confine che ci separa dall’estremo è un’illusione. Questa apocalisse è un escamotage. Anzi, forse l’apocalisse in letteratura è proprio qualcosa che serve a denudare i personaggi. Li porta a rivelarsi, a confrontarsi con ciò che sono nel profondo, a porsi nuovamente il quesito su che valore danno al termine umanità. Il problema è che questa apocalisse immaginaria porta noi lettori a fare lo stesso (non è un caso che dopo l’elezione di Trump, la gente legga 1984 di Orwell). Per cui mi sono chiesta: quale apocalisse può aver creato, Hang Kang, per portare i membri del Club del Libro a reagire in questo modo? Di cosa ha denudato i lettori? Perché questa donna che smette di mangiare fa impazzire tutti gli altri?
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Ciao Silvia, ti scrivo di getto, mi assale un’incredibile urgenza di parlare di questo libro e di fare largo alle parole che ho dentro.
Non è per un gesto di sottrazione, ma il silenzio che opporrei davanti a situazioni estreme come gli esempi che citi – La Strada e Cecità – è la sola condizione con cui manifesterei il mio sbigottimento. Come opporsi all’inverno nucleare del dopo-bomba e all’assoluta impotenza di fare qualsiasi cosa per la propria sopravvivenza? Come opporsi all’improvvisa perdita della vista mentre sei fermo al semaforo in attesa del “verde”?
La letteratura ci costringe, talvolta, a fare i conti con i nostri sentimenti più laterali. Eppure, sono persuaso che i clusters nei quali sono catalogati i nostri codici di esseri viventi – l’educazione ricevuta, la formazione appresa, la dimensione sociale che abbiamo costruito su questi valori – non comprendano la rinuncia alla vita, proprio perché è un valore estremo. E’ troppo, è fuori dal perimetro culturale che fa di noi quello che siamo. É fuori dalla nostra misura umana.
Forse con qualche eccezione. Se la scelta fosse tentare di salvare la vita del bambino… io, tu, tutti quanti… cercheremmo un posto al caldo così come fa il padre nel romanzo di McCarthy. Anche a costo della nostra vita. In quel romanzo straordinario, a rinunciare alla vita fu la madre, ricordi? Quello si, fu un gesto di sottrazione. Temo, però, che confrontarsi con un immaginario di tale portata rimanga in fin dei conti solo un esercizio intellettuale.
Yeong-hye è fuori di testa quando s’interroga sulla bellezza della morte. Non esiste la buona e bella morte: esiste solo la morte. Contesto la sua resa e oppongo ad essa il mio raziocinio: non c’è nessuna spiegazione logica!
Mishima, nelle conversazioni con i giovani samurai, esalta la bellezza del corpo ma anche l’onore di patria; ragione, questa, per la quale si tolse la vita. Col senno di poi ci si rende conto che quell’atto tremendo nelle sue modalità è il solo modo di immaginare la sua fine, ma non per questo accettabile.
C’è molto Giappone nel libro di Han Kang. Vorrei poter scomodare Murakami, in particolare alcune immagini di 1Q84, ma sono molto provato da una giornata intensa. Ti chiedo invece se non hai pensato e trovato nelle pagine anche Praga, quella di Kafka. Non dirmi che il decadimento del corpo di Yeong-hye non ti ha fatto pensare a Gregor Samsa de “La Metamorfosi” e che quell’incondizionata, consapevole rinuncia alla vita non ti ha ricordato Josef K del “Processo”. La stessa, passiva accettazione una giustizia ineluttabile per Josef quanto del destino per Yeong-hye!
Una domanda. Non è una metamorfosi quella che capita tanto a Yeong-Hye quanto agli altri protagonisti del libro? Il marito di Yeong-hye – il signor Cheong – che abusa sessualmente della moglie. Cheong, un uomo mediocre quanto la sua vita senza ambizioni e aspettative; un uomo vile che se la squaglia di fronte alle prime difficoltà. Poi il cognato, Yeong-ho, un altro matto da legare, che le fa la stessa violenza scambiando la menzogna di un abuso sessuale per un elevato atto allegorico di arte surrealista. Addirittura, per il godimento di quell’impulso carnale è disposto a farsi dipingere il corpo di fiori per unirsi così ai fiori dipinti sul corpo desiderato. Infine la sorella di Yeong-hye. Dimmi se non è distruttiva la scena del padre che picchia sua figlia davanti al marito il giorno dell’inaugurazione della casa: vogliamo parlarne? Di fronte alla catatonia maniacale di Yeong-hye, la sorella è l’ultima ad alzarsi e a interporre il suo corpo tra quello del padre e di Yeong-hye, vittima delle ingiurie e di una inedita variante di violenza fisica. La vicinanza di poi è il suo tentativo di placare i laceranti sensi di colpa. Negli occhi di Yeong-hye vede riflessa la sua stessa sottrazione dal mondo, scambiata per un falso spirito di servizio affettivo.
Insomma, alla fine siamo di fronte anche ad una storia di legami famigliari malati.
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Caro Michele, te ne sei accorto? Come i partecipanti del Club del Libro, anche noi abbiamo finito per sentire una misteriosa necessità di parlare tramite libro! Ciascuno a modo suo, confermiamo il fatto che “La Vegetariana” di Hang Kang presenta ai lettori un’ipotesi filosofica estrema, una sorta di apocalisse. Ti ho scritto che secondo me questa apocalisse è un escamotage che denuda i personaggi e spinge i lettori ad immaginare scenari lontani dalla realtà quotidiana. Aggiungo che questi scenari non sono che metafore che, ridotte all’osso e spinte all’estremo, finiscono per assomigliare alla nostra vita in modo inquietante. La scelta della sorella di strappare il sondino a Yeong-hye per salvarla dalla violenza di un’alimentazione che rifiuta, non assomiglia a un dibattito sull’eutanasia?
In Cecità, è chiaro ciò di cui personaggi e lettori sono denudati: la vista, cioè la capacità di vedere gli altri e il mondo. In La Strada è altrettanto chiaro: l’umanità è denudata di se stessa, come se il mondo tutto si fosse trasformato in un grande campo di sterminio. Ma di cosa denuda i lettori, Hank Kang? Che cosa strappa loro di dosso?!
A mio parere, “La vegetariana” ci priva della certezza di saper stabilire cosa è razionale e cosa non lo è, cioè di poter definire la follia all’interno di parametri precisi, ben identificabili e condivisi. Ne consegue che siamo denudati di una seconda certezza: quella di saper stabilire cosa è “giusto”, cosa è “morale”. Follia e morale sono forse i due argomenti chiave del romanzo. La storia è tutta costruita attorno a questo limite – questo tabù invalicabile – e i personaggi si organizzano come segatura di ferro attorno ai poli di una calamita. Perché questo fa la metafora estrema, il campo di sterminio, l’apocalisse: ti costringe a stare o di qua, o di là. Nessuna posizione moderata è possibile di fronte a Yeong-hye in un letto di ospedale: la scelta ultima è varcare o non varcare un limite, staccare o non staccare il sondino. Quale delle due è violenza? Questa è una scelta che si fa “nudi”, come la protagonista.
Mi parli di metamorfosi. Anche secondo me questo è il racconto di una metamorfosi che interessa molte anime. Il tema del doppio ne emerge come disegno naturale. Ciascun personaggio ha il suo doppio al di là dello specchio, la versione di sé che esisterebbe se il personaggio passasse il limite o decidesse di tornare al di qua di esso, qualunque cosa questo significhi: realtà o follia, morale o immorale, sociale o al di fuori delle convenzioni. E i personaggi viaggiano di qua e di là dal loro doppio, o semplicemente lo osservano.
In questa chiave, Yeong-hye ha il suo doppio nella sorella, che ha una famiglia, un lavoro e un ruolo sociale ben riconoscibile. Una partecipante al Club del Libro si è schierata a difesa di questa donna: “come madre, sorella, lavoratrice, moglie… tenta sempre di fare la cosa giusta!”. Eppure è proprio questo che il personaggio mette in dubbio alla fine, decidendo di varcare il limite strappando il sondino di Yeong-hye. Sia Yeong-hye che la sorella vivono per tutto il romanzo una simile morte sociale, ma se ne accorgono in momenti diversi. Queste sono le parole della sorella: “mi accorsi che la mia non era mai stata vita, ma uno sfoggio di resistenza”. Dunque la sua interpretazione di ciò che Yeong-hye sta vivendo cambia e vuole evitarle la violenza dei Giusti, dei Razionali, della Società. Forse perché si accorge di aver scelto e subito lei stessa una forma di quella violenza. Chi siamo noi per obiettare a questa metamorfosi? Eppure accettarla è risultato molto difficile ad alcune donne del Club del Libro.
Hai ragione, qui c’è un problema a cui reagiamo quasi per ragioni biologiche. Se nell’eutanasia si discute il diritto a una morte “dolce” da parte da chi è già condannato, in “La Vegetariana” si mette in discussione il concetto stesso di morte come qualcosa di negativo. Si discute insomma il diritto di chi rivendica la morte non solo come atto morale, ma addirittura come esperienza positiva. Mi ha ricordato le Operette morali di Leopardi, il famoso dialogo fra Plotino e Porfirio e l’acceso dibattito che scatenò vent’anni fa nella mia classe di liceo.
Per dirla con le parole di Christa Wolf, forse questo libro tocca un “punto cieco”. Scrisse la Wolf che un punto cieco è quell’area di realtà che non siamo disposti ad accettare. Tutti ne abbiamo una: a livello individuale è un problema, ma quando a fare esperienza di un punto cieco è un’intera società… si profila la catastrofe. La Wolf si riferiva al rifiuto della società tedesca di affrontare il passato, ma spiegò che non c’è alcuna differenza tra quel punto cieco e i punti ciechi dell’attuale società, contro cui ha puntato il dito nei suoi ultimi scritti (ad esempio il problema ambientale). Ne “La Vegetariana” emerge il paradosso: in una società folle, il tema della follia non può che essere un punto cieco! La follia è infatti il paradigma interpretativo messo in piedi per difendersi da ciò che non si vuol riconoscere. La follia è l’altro da noi che definisce noi stessi e i nostri solidi confini. É anche il terreno della non empatia, pena la disgregazione di ciò che siamo abituati a considerare la nostra identità. Non è quindi ovvio che sia il territorio a cui la letteratura muove guerra?
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Platone, in quelle pagine, ha parlato della vita ultraterrena solo per far astenere gli uomini dal male durante la vita, e ha detto che l’unica “medicina di ogni male” è la morte. Tuttavia, ha tolto agli uomini il conforto di un gesto estremo verso se stessi dichiarando il suicidio una cosa illecita. Cara Silvia, chi sono io per dire che Porfirio ha torto marcio nell’annunciare la sua intenzione di suicidarsi?
Sono d’accordo con la tua intuizione ma con qualche distinguo: Yeong-hye e sua sorella vivono ognuna a modo proprio l’ineluttabilità della propria fine. Yeong-hye ha svuotato il frigorifero come atto d’inizio della sua sottrazione dal mondo. L’ha fatto sulla base di una incontrovertibile certezza dell’infelicità, ultima e insuperabile, della sua vita. Questo la spinge a preferire il non essere all’essere, il non vivere al vivere. E’ come se finalmente gettasse la maschera dalla sua abitudine di vivere per adeguarsi ai desideri e alle attese di coloro che la circondano. Diventando vegana, perdendo peso e rinunciando al grasso fisiologicamente necessario per l’esistere, Yeong-hye sfida aspettative e desideri non suoi: rifiuta di continuare a vivere come una moglie il cui unico scopo è quello di cucinare per il marito e dormire con lui, e rifiuta di piacere alla sua famiglia sulla base di modelli comportamentali socialmente accettabili.
Sua sorella chiede a se stessa di se stessa nella scena tragica che citi, nel breve tratto dalla fermata del bus all’ingresso dell’ospedale. Dietro la sua resistenza vi è una sorta di rassegnazione per la fine di sua sorella, ma anche per la sua stessa fine. E’ in quella rassegnazione che vedo In-Hye trascinare il triste carro delle sue giornate. E’ forse vita e quella? O solo un tentativo di sopravvivere all’inferno affettivo in cui sembra essere caduta? La storia del sondino è solo l’ennesimo tentativo di salvarsi la pelle dai sensi di colpa che la perseguitano. Certo, condivido con te la convinzione che In-Hye tenta di sottrarla alla violenza del mondo per non farla sopravvivere. Ma la sottrae da una violenza con un’altra violenza. Mi pare di capire, tra l’altri, che la sua famiglia la dia già per spacciata e non ho visto alcun suo sollecito di In-Hye a partecipare al sostegno di Yeong-hye.
Finisco qui, Silvia. Questo romanzo è forte, viscerale, vissuto oltre qualsiasi aspettativa di lettura. E’ sensuale, provocatorio, violento, pieno di immagini potenti. Mi ha lasciato l’eco di sorprendenti e inquietanti interrogativi per giorni. La storia della vegetariana Yeong-hye cambia l’immaginario della letteratura che s’interroga e sviscera alcuni aspetti di modelli sociali esistenti e il risultato produce, e che ha prodotto in me, è un sentimento diviso tra irritazione e sconcerto.
Dalla narrazione in prima persona di quel miserabile del sig. Cheong alla quella densa e sanguinosa di Yeong-hye ai sogni di Hye-Ye, fino alle descrizioni seducenti dei corpi dipinti di fiori e del loro stato di trasformazione e deperimento, frase dopo frase, La Vegetariana è stata una straordinaria esperienza di lettura.
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Caro Michele, anche io mi fermo qui. L’unica affermazione su cui davvero dissento è che “confrontarsi con un immaginario di tale portata rimane, in fin dei conti, solo un esercizio intellettuale”. La cecità di Saramago, lo scenario post-atomico di McCarthy e ora questa distopica vicenda – che ci costringe a esprimere il nostro punto di vista su razionalità e follia – non sono che metafore. Già da molto tempo il mondo è affetto da cecità bianca, inquinamento chimico e psicologico, Grandi Fratelli e una società folle che si arroga il diritto di definire cosa sia mentalmente “sano” sulla base di presupposti non sempre condivisibili. Eppure noi ce la prendiamo con questa bambina interiore e col suo desiderio che nasce da una ricerca estetica dell’anima. È vero, c’è molto Oriente in questa distanza diversa dalla vita e dalla morte.
Scrive Hang Kang nell’intervista di cui il link è allegato qui sotto: “Yeong-hye può sembrare folle ma in realtà nel suo stesso universo è profondamente sana, forse troppo. Talmente sana di mente da non poter sopportare il mondo così com’è”. Forse possiamo provare semplicemente a capire, a prendere atto che ci sono molti “universi” e che questo che abbiamo costruito potrebbe non essere il migliore dei mondi possibili.
Per BookAvenue, Silvia Belcastro e Michele Genchi
Per approfondire:
Intervista a Hang Kang, Marie Claire 27 ottobre 2016
Recensione di “La Vegetariana” sulla rivista culturale Minima&Moralia
Michela Murgia, Quante storie su “La Vegeteriana”
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Il libro:
Han Kang,
La Vegetariana,
Adelphi
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