“Teresa, per favore, mi porti una lente d’ingrandimento!”. Quanto può diventare piccolo un giornalista di peso, lui calcola 120 chili, che si mette in politica? Può diventare piccolo, trasparente, anzi invisibile. Giancarlo Mazzuca nel suo ultimo libro ‘Compagni di Camera’, Minerva Edizioni, scrive che nella legislatura appena conclusa, vissuta da parlamentare del Pdl, si è sentito “un niente, come dimostra la foto della retrocopertina: un emiciclo vuoto con un unico omino, lassù, in alto. Completamente solo. Quell’omino sono io”.
Tenendo fra le mani il suo libro avevo notato quella foto e avevo anche pensato che non l’avrei mai scelta, perché chi fa il giornalista sa che vanno scartate le foto-cartolina che sono senza personaggi. E l’avevo pensato perché non l’avevo visto, tanto è microscopico, in quell’immagine della Camera deserta. Ma ad un certo punto mi è venuto un sospetto, perciò mi sono fatto portare dalla segreteria la lente di ingrandimento e così avvicinandola alla foto ho avuto la conferma: c’è un uomo in quella bomboniera vuota ed è lui! Giancarlo Mazzuca, deputato numero 492, che se ci aggiungi un 1 diventa l’anno della scoperta dell’America e che è il numero dello scranno che ha occupato nella 16.a legislatura della Repubblica, quel banchino in alto, nell’ultima fila al centro.
Questa foto di lui solo, solissimo, è il simbolo stesso di questo libro, perché ritrae il deputato numero 492, alias Mazzuca, con un sorriso triste, anzi tristissimo, mentre saluta con la mano destra, che sembra faccia il saluto romano – Mazzuca è romagnolo verace ma non è di quella parte – e invece a guardare bene si capisce che fa così con la mano come se lanciasse un grido, un richiamo, come se dicesse: “Oooh, sono qui! Mi vedete?”, come fosse un naufrago in mezzo ad un mare di delusione e di amarezza.
Giancarlo Mazzuca, giornalista e direttore che mi ha preceduto nella guida de Il Giorno (di cui è di nuovo direttore), del Quotidiano Nazionale e de il Resto del Carlino, ha scritto un libro che è un bel libro, e se non lo fosse non lo direi. Bello perché è un racconto, perché è scritto bene, in modo fluido, perché si legge volentieri d’un fiato, perché è sincero, perché è uno sfogo e anche un grido d’accusa senza retorica. Piuttosto con il tono di chi ha sbagliato piano dell’ascensore e accorgendosi di essersi fermato al pianerottolo sbagliato non si mette ad insultare gli inquilini ma piuttosto dice: “Scusate, ho sbagliato piano”. Anche se un po’ di amarezza, anzi parecchia, Mazzuca ce l’ha. Gli entusiasmi iniziali, le prime percezioni nel vedersi sballottato da una candidatura ad un’altra, quasi senza essere interpellato e per sola ed esclusiva decisione di chi tira le fila nel partito, che non sono i deputati e men che meno i peones come lui, ma i capi, insomma quei due o tre che contano e che fanno il bello e il cattivo tempo e non solo nel Pdl ma anche negli altri partiti, poi dicono che sono solo i grillini ad avere problemi di democrazia interna.
Insomma cinque anni spesi in una crescente solitudine e senso di impotenza, e alla fine la presa d’atto e il riconoscere che aveva ragione Montanelli che rifiutò sempre di mettersi in politica e diceva che un giornalista deve fare solo il giornalista, perché quello del politico è un altro mestiere e dopo aver passato la vita a frustare il Palazzo non puoi poi entrarci dentro.
Mazzuca lo ha capito nei cinque anni della legislatura passata e si percepisce la gioia che lo riscalda mentre verga le ultime righe di questo libro brillante e intelligente. Quando annota che tornando a fare il giornalista potrà finalmente riprendere a scrivere, che è la sua passione. Capisco e condivido, bentornato.
Giovanni Morandi da qn