1907. Alla fine di una sofferta storia d’amore con lo scultore Rodin, la pittrice inglese Gwen John regala all’amica Ursula la tela che aveva dipinto per lui. Ursula la smarrisce, ma questo piccolo e intimo quadro, raffigurante un angolo della mansarda di Gwen a Parigi, passerà nelle mani di sei donne, tutte legate dalla passione per l’arte e dal sottile filo del destino. Charlotte, un’aspirante artista che per il dipinto prova «un amore a prima vista». Stella, un’infermiera, che sarà costretta a venderlo per fuggire da una relazione soffocante. Lucasta, pittrice repressa che lo regalerà al suo amante Paul, che a sua volta ne farà dono alla moglie Ailsa.




Gli scritti di “La vita non basta” escono dal baule da matrimonio di Fernando Pessoa che conteneva oltre ventisettemila documenti acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Lisbona. In quello che è diventato un’autentica icona letteraria, Pessoa teneva le sue carte e quelle dei suoi doppi, Bernardo Saores, Alvaro de Campo, Ricardo Reis, Mário de Sá-Carneiro, Almada Negreiros, Armando Córtes-Rodriguez, Luis de Montalvor, Alfredo Pedro Guisado, ciascuno dotato di una propria storia e fisionomia indipendente. Per loro egli costruiva passati e presenti alternativi, progettava libri che non avrebbe mai scritto, inventava professioni prese dal mondo reale. Erano i cosidetti eteronimi, ossai gli autori fantasmi che non tanto cavava dal proprio interno, ma convocava a sé con «un tratto profondo d’isteria», per la sua tendenza organizzata e costante «alla spersonalizzazione e alla simulazione».
Nel secolo del mitico far west, nelle terre selvagge dell’Arkansas, al confine con lo sterminato Territorio Indiano – rifugio di ladri di cavalli, rapinatori di treni e battelli a vapore, assassini bianchi e meticci braccati da feroci cacciatori di taglie – vive Mattie Ross, un’impertinente «mocciosa di quattordici anni… capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre».
di Michela Murgia