Podcast Unplugged. Cinque consigli per i vostri regali di Natale.

grammofono
   Tempo di lettura: 6 minuti

Negli anni dal 1960 al 1965 nel mondo del Jazz c’erano già state delle rivoluzioni tali da rimanere attoniti. Come schegge impazzite da un proiettile che si disintegra in mille direzioni divergenti erano schizzati via il free jazz, il post-bop, il modale, la third stream e tanto altro aprendo un ventaglio di opzioni, possibilità, eventualità, occasioni. Era l’ultima età dell’oro nel Jazz, un’irripetibile epopea durata lo spazio di un lustro, forse due, in un deflagrare di talenti, geni e cialtroni.

E, dunque, sono questi gli eroi della breve lista della spesa che vi offro per i vostri regali. Badate bene: quale che sia la vostra scelta sarà una buona scelta. Buone Feste (FS)

A Love Supreme, John Coltrane. 1964

John Coltrane siede sullo sgabello di un pianoforte a coda e aspira il fumo di una pipa bianca. È il 10 dicembre 1964, e lo studio del tecnico del suono Rudy Van Gelder, a Englewood Cliffs, nel New Jersey, è immerso in un’atmosfera religiosamente soffusa, silenziosa, anestetica. Le volute prodotte da Coltrane si addensano in un’aria adamantina: quella stanza è il tempio in cui è appena accaduto qualcosa di prodigioso, e il sacerdote giace esausto nell’angolo, prende fiato e medita. Nei timpani risuonano ancora gli accordi di McCoy Tyner, i colpi sulla cassa di Elvin Jones, le linee di basso di Jimmy Garrison. Gli assoli di Trane che fino a poche ore prima avvolgevano gli altri in un gorgo vorticoso e sfrenato. Fu quella, la notte: l’America nera esplodeva nell’America bianca. John Coltrane esplodeva nell’America e dava vita e fiato all’album che cambiò per sempre il modo di fare jazz: A Love Supreme è il testamento di una intera epoca: la poliritmia africana propulsiva e catartica, i tempi dilatati del jazz modale, la litania meditabonda del folk orientale, le vampe del free jazz, il calore intimo del blues e la redenzione orgasmica del gospel.

Explorations, Bill Evans Trio. 1961

Explorations, forse meno toccante di altri momenti della lunghissima carriera di Bill Evans, rappresenta un invidiabile punto di equilibrio, uno di quei gioielli che puoi collocare sulla punta più alta di qualsiasi collezione di musica quale che sia il genere ascoltato. Merito ovviamente anche dei suoi storici collaboratori (Scott La Faro e Paul Motian), interpreti eccellenti di quello che rimane forse il trio più celebre di tutto il jazz. Un trio tanto collaudato e consolidato da fondere le anime dei musicisti, ricavandone un flusso sonoro minuziosamente calibrato e architettonicamente complesso, eppure capace di suonare “naturale”.

Yusuf Lateef, Eastern Sounds. 1961

Yusef Lateef ha realizzato alcuni dischi davvero interessanti durante la sua carriera e questo è uno dei punti più alti. Un mix molto interessante ed inebriante di suoni orientali mescolati con jazz e blues, il tutto dal suono completamente naturale e mai ingannevole.
Un disco dall’ottimo suono, la mia copia occasionalmente presenta qualche strana macchia di rumore superficiale, ma è tutto lieve e molto momentaneo.
Sembra che tutto sia proprio lì, a pochi passi di distanza. Tutti gli strumenti suonano correttamente, soprattutto il sax, dal suono vellutato. Un disco quasi silenzioso. Imperdibile

Song for my father, The Horace Silver Quintet. 1965

Lontano da qualsivoglia frangia rivoluzionaria, ma anzi ancorato alle proprie radici Capoverdiane ed al tipo di Jazz che aveva contribuito fortemente a sviluppare (nei Jazz Messengers) Horace Silver tira fuori dal cappello un capolavoro di buon vecchio Hard Bop da leccarsi i baffi realizzato tra il 1963 e il 1964 in parte con la band che stava sfasciando e in parte con quella che stava formando (in cui figurano Joe Henderson e Carmell Jones).

Tutto l’album si distingue per una qualità compositiva eccelsa, frutto della vena squisitamente fertile del suo autore, e per una magnifica qualità esecutiva in virtù di assoli ricchi di inventiva melodica degli straordinari Junior Cook e Blue Mitchell da una parte e Joe Henderson e Carmell Jones dall’altra, che ne fanno un’opera irrinunciabile per ogni amante dell’ottimo Jazz targato Blue note.

kinfd of blue

Miles Davis, Kind of blue. 1959

Mi ripeto nei termini: Kind of Blue, non è solo il momento più alto della carriera di Miles Davis, è un album che sovrasta per imponenza e altezza i suoi coetanei, si fa per dire, musicali; un record per essere considerato l’album di jazz definitivo e un lavoro unanimamente accettato per la grandezza e innovazione e forse, tra i più grandi mai usciti di musica jazz. Un disco quasi mistico per come attira gli ascoltatori. Inizia con un lento e lussuoso insieme di accordi al pianoforte di “So Wath” e da quel pezzo in poi, il disco non cambia praticamente ritmo rimanendo rilassato, a volte anche silenzioso, per tutto il tempo. Kind of Blue è all’apice del jazz mondiale per le tonalità modali e gli accordi che lo rendono un “testo base” come di un manuale per chi studia, tale da renderlo una tappa fondamentale per chi si avvicina all’ascolto di questa musica. Non vi basta? Compratevelo.

per BookAvenue, Francy Schirone

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