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Colson Whitehead, I ragazzi della Nickel

L’ultima parte del romanzo ti cattura, acceleri nella lettura; vuoi capire come Elwood sia riuscito ad andarsene e, pur non trattandosi di un giallo, la curiosità cresce.

Poi leggi quel paragrafo e ti fermi, sei sicuro di aver letto male -è già capitato- torni indietro e rileggi; ti rendi conto di aver letto bene, per sicurezza leggi per la terza volta le righe chiave. Non ti sei sbagliato, allora ti fermi e ti chiedi come sia possibile; ma basta continuare la lettura perché l’arcano sia svelato. Tutto torna a posto, ma il racconto prende un’altra piega, in parte cambia prospettiva. Ma ormai sei alla fine del romanzo, un racconto con il finale aperto: spetta a te, lettore, dopo che avrai chiuso il libro, scrivere la conclusione nella tua immaginazione tra le due ipotizzate dall’autore.

E adesso che hai chiuso il libro osserverai la copertina e vedrai quello che prima non avevi visto, perché è una splendida sintesi iconografica della narrazione.

Mai avuto famiglia

Una famiglia, una casa. Tranquillità, serenità, ordine… E poi un incendio terribile e tutto di colpo finisce, si dissolve, quasi non fosse mai esistito prima. Quasi.
“Mai avuto una famiglia” è un libro sul senso di colpa di chi sopravvive ed è una meditazione per sopportare l’insopportabile.

“Vuole andare. Infilarsi nella Subaru familiare e scivolare lungo queste contorte, dissestate strade di campagna fino a trovarne una grande, puntare a ovest e via. Vuole continuare ad andare più a lungo e più lontano che può senza passaporto, dato che quello che aveva non esiste più […]”>>

copertina

Il ritorno di Telemaco

copertinaPrendete Sunset Park, staccate la copertina (se vi riesce di farlo) e incollate le pagine in coda a Follie di Brooklyn.  Lo avete fatto? Bene: andate all’inizio dei due libri, che sono diventati uno solo, e cominciate a leggere.
Mi sembra che Paul Auster abbia voluto scrivere una elegia alla città di NY, dove abita, attraverso due storie verosimilmente uguali sotto il profilo della tensione emotiva, dei luoghi e dei meccanismi psicologici che stanno nella scatola nera dei personaggi.

Il cuore inglese sulla graticola della Brexit

Per quanto mi sia fatto tre risate (di cui una grassa), cosa per me rara,  non me la sento certo di dire che il libro si possa definire allegro. Non lo è, anzi molte pagine sono impregnate di amarezza, l’amarezza della sconfitta. Non solo l’insuccesso al referendum, ma la sconfitta di un modo di pensare e di un’idea di società. Ma nonostante questo Middle England di Jonathan Coe è decisamente di gradevole lettura e merita di essere  letto.

Revenant, La storia vera di Hugh Glass e della sua vendetta

“Vide gli orsacchiotti prima di vedere la loro madre. Erano due, e si precipitarono verso di lui a balzelloni, latrando come cani giocherelloni. Erano stati partoriti quella primavera, e a cinque mesi pesavano un centinaio di libbre ciascuno. Si mordicchiavano a vicenda mentre si dirigevano verso Glass, e per un brevissimo istante la scena parve quasi comica. Ipnotizzato dalle turbinose capriole dei cuccioli, Glass non aveva ancora rivolto lo sguardo verso l’estremità della radura, cinquanta metri piú in là. E neppure aveva preso in considerazione quel che la loro presenza doveva certamente implicare. A un tratto lo capì. Fu attanagliato da un senso di vuoto allo stomaco mezzo secondo prima che giungesse fino a lui il primo fragoroso bramito. Immediatamente i cuccioli si bloccarono, a tre metri scarsi da Glass. Ignorandoli, lui si voltò a guardare la boscaglia all’altro capo della radura…”

La ragazza con la Leica di Helena Janeczek

Attraverso i ricordi degli amici più intimi di Gerda Taro, nome d’arte di Gerda Pohorylle, Helena Janeczek ricostruisce la breve vita della compagna del celebre fotografo Robert Capa. Gerda, animo ribelle e controcorrente, fu ella stessa fotografa e contribuì a creare il mito di Capa: se fosse vissuta oggi, sarebbe una bravissima esperta di marketing, perché fu grazie ai suoi suggerimenti – primo fra tutti quello di cambiare nome da Andrè Friedmann a Robert Capa – che il giovane ungherese, rifugiato politico a Parigi, seppe accrescere la propria notorietà e il proprio prestigio.

Tutte le mattine felici si assomigliano. Jonathan Safran Foer

Mettetevi comodi: ci vorranno dieci di minuti per arrivare a fondo pagina.

Leggo dal dizionario Sabatini: casa[cà-sa], sostantivo femminile, 1 Edificio a uno o più piani, di dimensioni e aspetto vari, adibito ad abitazione dell’uomo: c. popolare, signorile || seconda c….etc…, 2 Abitazione, residenza di un nucleo familiare: aprire, chiudere, cambiare c.; cercare, trovare c. || metter su c., andare ad abitare per proprio conto | fare gli onori di c…., etc…, nel gergo sportivo, disputare una competizione sportiva nella propria città o nella città della squadra avversaria || figg. abitare a c. del diavolo, fuorimano | sentirsi a c. propria, a proprio agio | portare a c. la pelle, sopravvivere, salvarsi dalla morte | a c. mia, secondo me, a mio parere | non sapere dove stia di c | c. comune, unione ideale di forze, di intenti, di principi politicamente vicini |, 3 La propria famiglia: saluti a c. || essere tutto c. e chiesa, di persona dedita esclusivamente alla famiglia e molto religiosa >>

Simon Winchester, Il professore e il pazzo

Di Simon Winchester avevo già letto altro. Per cui quando ho preso in mano Il professore e il pazzo< mi è venuto spontaneo dargli un’occhiata. Anche perché la copertina fa simpatia, è buffa. L’abstract del testo mi inspirava, ma è quando ho letto  le poche righe espunte dal testo in cui Winchester racconta l’incontro tra il Murray e Minor che ho capito che non potevo non leggerlo.
Adelphi ha scelto probabilmente le righe più belle del libro. Il divertente e ben congegnato racconto di un colpo di scena: l’incontro tra Murray curatore dell’Oxford English Dictionary e il suo collaboratore principale, il dottor Minor. Minor, un medico americano in congedo, è detenuto in un manicomio per aver ucciso un uomo ed essere stato dichiarato malato di mente durante il processo.

Elisabeth Åsbrink, 1947

Ho terminato da poche ore il saggio in forma narrativa 1947 e  non riesco a digerirlo, continuo a rimuginarci. È palese che il libro non mi ha lasciato indifferente. Se dovessi usare un aggettivo per definirlo direi: interessante. Ma sarebbe nascondere l’inquietudine che ha mi ha trasmesso. Ecco, la biografia di quell’anno del dopoguerra ti tramette le macerie nell’animo. Non perché descrive le macerie lasciate dalla seconda guerra mondiale, ma perché inocula l’assenza di speranza di quel libro. Non c’è speranza, né spazio per un mondo migliore. Sarò un pessimista, ma questo è ciò che ho ricavato dal libro. Continuo a rimuginare su quello che ho letto e vedo nella cronaca attuale quello che succedeva allora protrarsi senza sosta e senza speranza di soluzione. Ecco un altro aggettivo per quel libro: amaro.