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Magistrale secondo romanzo di Philipp Meyer, Il Figlio è un poema epico dalla grande potenza narrativa che sorprende. Meyer racconta la storia del Texas attraverso una famiglia di disadattati e reietti. Il figlio è un libro sconcertante incentrato sui personaggi e si legge come tre autobiografie che variano di continuo il tono, lo stile e la voce.  
Colpisce il capostipite centenario Eli, conosciuto da tutti come “Il colonnello”, nato a Bastrop in territorio indiano lo stesso giorno in cui il Texas diventò una repubblica, ma anche la storia di suo figlio Peter (impressiona molto il modo in cui cresce e gradualmente si ribella contro il padre autoritario) e la narrazione della pronipote Jeanne Anne che, da ultima erede, dovrà riannodare i diversi fili spezzati.

In un certo modo, il vecchio Eli è l’America. La sua storia personale, di spietato e lucido coraggio, spesso degenera in brutale perché lui (come l’America) è disposto a tutto per costruire il suo impero.
Così Philipp Meyer, metaforicamente, riscrive la storia dell’ascesa inarrestabile della sua America e ci dice qualcosa di importante sul nostro passato che potrà essere con ogni probabilità una parte imprescindibile del nostro futuro (che cosa?… basta leggersi le tre storie… ;-)).
In questo libro non c’è suspense nel senso classico, ma di pagina in pagina non si vede l’ora di sapere cosa succede. C’è molta tensione, sì, e violenza sia fisica che psichica. Le prime scene che descrivono la morte violenta della famiglia di Eli e altri passaggi più avanti sono inquietanti e vividi, ma necessari. Meyer però esplora idee (che cosa significa avere successo in America e quanto spietatezza è necessaria per conseguirlo… quanto peso ha l’eredità di certi padri che mettono il peso della storia sulle spalle dei propri figli… come le donne possono trovare il loro tipo di potere all’interno delle strutture di sesso maschile senza perdere la loro anima) e fa un grande lavoro per entrare dentro la testa dei suoi personaggi.
Lettura impegnativa, insomma. Un vero originale americano debitore però in spirito ai vari Melville, Faulkner o McCarthy.

Philipp Meyer, Il figlio, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi, 2014.

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Marco Crestani

"In una poesia o in un racconto si possono descrivere cose e oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso, e dotare questi oggetti - una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino - di un potere immenso, addirittura sbalorditivo. Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena… Questo è il tipo di scrittura che mi interessa più di ogni altra. Non sopporto cose scritte in maniera sciatta e confusa…"(Raymond Carver)
http://libereditor.wordpress.com/

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