All’epoca di Mao non c’erano ricchi. Dal 1949 lo stato procedette a togliere tutti i beni e nazionalizzarli. La proprietà era vista come simbolo della classe sfruttatrice del proletariato. Durante le riforme agrarie le terre furono espropriate così come le fabbriche furono confiscate e “fuse” obbligatoriamente con le imprese pubbliche o comprate semplicemente dallo stato centrale. Il crollo dei beni di prima necessità rese tutti poveri. Proprio tutti quanti. Eppure, tutti cominciarono a gridare che il popolo non avrebbe abbandonato la lotta di classe.
Questo slogan era scritto sui muri delle case di tutto il Paese. Il Paese avrebbe fatto qualsiasi cosa in nome di un supposto patriottismo e, a suo modo, è ancora convinto di esserci riuscito. Mentendo, è evidente. La corruzione dei suoi quadri politici e degli impiegati ha regolato la vita del Paese e piegato la società civile in nome del Partito.
Il ’49 e l’altro ieri. Oggi, solo 65 anni circa dopo: niente in termini di epoche, la Cina sta da tutt’altra parte. Di certo non assomiglia a quella di Mao (che è morto nel 76: ieri mattina) ma le classi e la lotta ci sono ancora, non fosse altro perché i loro mezzi di informazione ce lo raccontano ogni giorno. Nel corso degli ultimi anni la Cina ha subìto una serie di tumultuosi cambiamenti, soprattutto economici da quello che il mondo ha potuto vedere. Quasi nessuno invece in termini di diritti degli individui alla mercè della corruzione e dei funzionari. La libertà intellettuale è un diritto negato.
Riprendo, a questo proposito, la notizia di Giampaolo Visetti su Repubblica che riferisce del premio Nobel per la pace Liu XiaoBo. “Sono passati quattro anni dal Nobel per la pace a Liu Xiaobo, venticinque dalla repressione degli studenti in piazza Tienanmen, e la realtà in Cina è questa: il dissidente è isolato in Manciuria e sottoposto a regime di carcere duro, sua moglie è agli arresti domiciliari in un ospedale di Pechino. Nessuno dei due è avvicinabile. Liu Xiaobo rifiuta di chiedere clemenza al presidente Xi Jinping. Liu Xia (la moglie) dice che la politica non la interessa. Quando si incontrano possono scambiare solo poesie d’amore: la censura pensa che non sono anti-patriottiche”.
Le stesse nazioni occidentali che nel 2010 di fronte alla sedia vuota la sera della consegna dei prestigiosi diplomi, promisero solennemente di occuparsi della questione e di liberare il poeta dissidente e pacifista si sono, in tutta evidenza, arresi alla ragione di stato e soprattutto a quella economica essendo partner nei lucrosi affari con il governo di Pechino compreso, spiace dirlo, il presidente Obama, premio Nobel per la pace anch’esso, che non ha nemmeno provato a far sentire il suo dissenso.
Il poeta aspetta una giustizia che non verrà; condannato alla galera per aver chiesto libertà e aver dedicato il premio “alle anime morte di Tienanmen”. Passa le sue giornate in isolamento, nessun contatto con l’esterno, nessuna visita. La moglie che ha resistito per anni, ora è rinchiusa in un ospedale psichiatrico per esaurimento. Mentre scrive le sue poesie con l’acqua per terra dal momento che gli hanno tolto pure l’inchiostro e la carta. Il tempo di far evaporare le parole.