Sopporto male gli autori che danno alle stampe le loro memorie. Ci vuole un ego ipertrofico oltre ogni dire per pensare che la propria esistenza sia così interessante da meritare di permanere a dispetto degli alberi sacrificati a immortalarla. Alle memorie di Mary McCarthy si aggiunge l’aggravante della sua scintillante impudenza: è un’intelligenza ingombrante che sa tutto, ricorda tutto o comunque è in grado di porsi il dubbio, non risparmia niente a nessuno (a onore del vero nemmeno a se stessa) e giudica e commenta ogni cosa; nelle pagine che seguono vi accorgerete che ha già scritto lei anche la sua prefazione, giusto per dire che a questo libro non servirebbe una sola riga in più, tantomeno mia. Immagino sia proprio per questo che la voglio scrivere: l’impudenza è una delle poche temerarietà che invocano compagnia.
I binari della mia ingerenza scorrono sulla frase che fa da dorsale a tutto il testo: “Essendo orfani, mio fratello Kevin ed io abbiamo un interesse ardente per il nostro passato, e ci sforziamo di ricostruirlo insieme, come due archeologi dilettanti”. Mary McCarthy lo dice come se quella impietosa tipologia di scavo spettasse solo a chi non ha più i genitori, ma l’orfanitudine a cui fa riferimento indica qualcosa di più complesso di un nudo dato biografico: riguarda chiunque abbia ricevuto un imprinting familiare fatto in gran parte di assenze, un esercizio di amputazione relazionale che riesce bene a più di un genitore vivo. Non si contano i capolavori letterari che hanno preso vita dalla scoperta che la propria famiglia fosse un orfanotrofio di fatto.
C’è poi il dato oggettivo della nostra impermanenza. Rispetto all’intera esistenza che abbiamo attraversato, ciò che ci resta in mano in forma di ricordi non sono altro che frantumi, pezzi sparsi a geometria variabile. Quello stato di incertezza ci fa orfani di nuovo e stavolta di noi stessi, di quella umana incapacità di restare presenti in tutto il tempo vissuto. Eppure è un limite che non solo non esclude la memoria, ma la genera. Sono quei vuoti di vita a imporci di ricostruire il vissuto attraverso un atto di riparazione narrativa quasi sempre collettivo, e quindi mai reale fino in fondo; in questo senso ogni autobiografia è un supremo esercizio di finzione letteraria e richiede complicità molteplici. Mamma, com’ero io da piccolo? Come vi siete conosciuti tu e papà? Ero felice a due anni? Come mi sono fatta questa cicatrice? Perché non andiamo mai a casa di nonno? Le risposte a domande come queste non possono che essere letteratura, una verità sul mondo che nessuna anagrafe ha più titoli per restituire.
(Questo testo è un breve estratto dalla prefazione che ho avuto l’onore di scrivere a “Ricordi di un’educazione cattolica” di Mary McCarthy, uscito per Minimum Fax.)
il libro
Questa è la storia di una bambina che perde entrambi i genitori a sei anni e viene affidata alle «cure» di nonni e prozii troppo bigotti per distinguere il confine tra la pedagogia e il sadismo, e che in seguito viene salvata da una coppia di nonni più affettuosi e bonari ma altrettanto severi nel loro conformismo sociale. È la storia di un’educazione rigida e di infiniti passaggi, da un collegio religioso all’altro, da Minneapolis a Seattle, da una famiglia cattolica a una protestante. Ma è anche una storia di scoperte e innamoramenti, di accesi litigi e comici malintesi: tra discussioni teologiche con i padri gesuiti sull’esistenza di Dio, recite scolastiche ambientate nell’antica Roma repubblicana, gite istruttive ai parchi naturalistici che si tramutano in rocamboleschi tour de force alcolici, vere o presunte iniziazioni sessuali, letture proibite e appuntamenti clandestini, la personalità della bambina lascia gradualmente il posto a quella di un’adolescente ribelle e infine a quella di una giovane donna lucida e coraggiosa, aliena alle convenzioni e a ogni forma di moralismo. Pubblicato originariamente nel 1957, Ricordi di un’educazione cattolica è un memoir appassionante come i migliori romanzi di formazione, che unisce il ritratto di un’epoca e la dolorosa confessione personale.