Podcast. Le nuove generazioni del jazz: Jamie Cullum

   Tempo di lettura: 4 minuti

Raramente io e il mio due di copia andiamo d’amore d’accordo in fatto di musica. Trovo, talvolta, il suo rigore un po’ “vetero” (qui alludo anche alle sue idee in fatto di politica) e che hanno a che fare con la sua anagrafe. Capiamoci, (sennò la Manduca me la ritrovo dietro la porta), va tutto molto bene, se non fosse che qualche volta i toni con cui confliggiamo sono sopra le righe. Ma sono battibecchi che in amore ci stanno tutti. Non ho dovuto scontrarmi, anzi, quando mi sono messa a scrivere di Jamie Cullum con lui che cercava di sbirciare, come si fa tra compagni di banco, il soggetto dell’appuntamento di giro della rubrica.

E’ bravissimo, lo dico subito, con una bella voce e uno swing che tanto mi ricorda certi suoni di Tom Waits. Jamie è un bel giovanottone inglese di 33 anni; anche se è principalmente un cantante jazz, si accompagna con diversi strumenti quali il piano, che suona quasi sempre, ma pure la chitarra e la batteria. Il dna musicale lo ha preso quasi sicuramente dalla nonna paterna: una donna ebrea in fuga dalla Prussia che cantava nei locali notturni di Berlino. Non sto a scrivervi della sua famiglia ma se serve qualche notizia, posso dirvi che né il padre ne la madre hanno niente a che fare con la musica: lui lavorava nella finanza e la madre è una anglo birmana la cui famiglia si era stabilita nel Galles dopo la fuga dall’indipendenza. Jamie ha sempre coltivato la musica anche se si è laureato in letteratura per fare altro. Il suo primo disco lo ha auto-pubblicato subito dopo gli studi con il Jamie Cullum trio (mi pare ci sia Ben, il fratello maggiore nel gruppo) introvabile, suscitando l’interesse – capita quasi sempre così – di un produttore che lo ha promosso e lanciato. Capite bene: un contratto con qualcosa come unmilione (!) di sterline per la Universal lasciando a bocca asciutta case discografiche come e la Sony. Twentysomething uscito nel 2003 (fate i conti: a 24 anni) ha vinto il disco di platino e numero 1 per gli album in studio di un qualsiasi altro artista jazz del Regno Unito. Ma il suo carattere musicale ha dell’eclettismo che lo avvicina a generi musicali aderenti al nuovo pop corrente e che trova vicinanze a grandi personaggi della musica di adesso oltremanica quali i White Stripes, i Massive Attack, i Pussicat Dolls, i Radiohead (eccetto gli ultimi, il mio due di coppia non sa chi sono, quasi certamente!)

I suoi concerti, e mi piacerebbe verderne uno, sono quasi sempre improvvisati e affondano le sue radici jazz, ma non sono solo esclusivamente di genere; ha suonato con personaggi tipo Kylie Minogue e un signore che si chiama Burt Bachrach.

dalla collezione di casa consigli per gli acquisti

Twentysomething (del 2004), già citato e che contiene “What a difference a day made” che vi faccio ascoltare dal You Tube, e “It’s about Time” davvero magnifico; da Catching Tales consiglio, invece, Get your way che è bello assai assai, e da The Persuit, ultimo della lista, dove c’è High and Dry che vale da solo il prezzo pagato.

E su questo io e il mio due di coppia convergiamo come il parmigiano sul ragù (quello che prepara lui è buonissimo).

Buon ascolto e alla prossima

 

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1 commento

  1. 10 e lode… 🙂
    chi la dura la vince…

I commenti sono chiusi.