Il camion con la scritta BASKO stava viaggiando sul viadotto quando il ponte si è spezzato. L’asfalto è precipitato nel vuoto e il conducente si è fermato sull’orlo di un baratro. Per giorni, i nostri occhi sono rimasti incollati a quel camion fermo definito “sospeso”. Aprendo il dizionario ho scoperto che sospendere significa “appendere un corpo in maniera che penda, impossibilitato a cadere a terra”, ma anche “arrestare, non portare a compimento. Di qui la “suspense”: cioè uno “stato di attesa, ansia, incertezza e mancato compimento dell’azione. Nel frattempo, il camion era diventato un “ Un simbolo, diceva il dizionario, è “qualunque tipo, emblema o rappresentazione di oggetti morali tramite immagini o proprietà naturali. È qualsiasi elemento atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla“. Forse un’anima collettiva era rimasta bloccata sul viadotto e rendeva il camion un em>oggetto morale? Una storia, mi sono chiesta, può essere considerata un oggetto morale?
Una trama imperfetta e un’idea perfetta: del perché non possiamo fuggire
In quei giorni stavo leggendo Non lasciarmi del Premio Nobel per la Letteratura 2017, Kazuo Ishiguro. Ambientato in un’Inghilterra fantascientifica negli anni Novanta, il romanzo è “la storia dell’amicizia e dell’amore nella vita delle persone, specialmente quando si rendono conto che il tempo è breve, cioè di fronte al fatto che siamo mortali”. I protagonisti sono tre giovani cloni di esseri umani: Kathy, Tommy e Ruth. Ne seguiamo la crescente consapevolezza, dall’infanzia alla maturità, di andare incontro a un destino segnato. A raccontarci la vicenda è Kathy: “Mi chiamo Kathy H. Ho trentun anni, e da più di undici sono un’assistente”. A lungo non capiamo cosa sia “un’assistente”. Kathy ci racconta infatti una storia già avvenuta (retrospezione) utilizzando termini che capiremo solo in seguito (anticipazioni).
Kathy ci parla della sua infanzia ad Hailsham, uno strano collegio in cui i bambini seguono lezioni impartite da insegnanti detti “tutori”. L’anno scolastico ruota attorno alla visita di una enigmatica signora detta “Madame e “a eventi collettivi come il “Grande Incanto”. Lo sviluppo delle capacità artistiche è fondamentale: i bambini sono invogliati a dipingere, scolpire, scrivere e costruire oggetti che poi custodiscono in bauli ai piedi del letto. I bauli racchiudono anche i bottini dei Grandi Incanti dell’infanzia: una musicassetta, una statuetta, un fazzoletto. Mi hanno ricordato la celebre scena de Il Favoloso Mondo di Amélie, quando l’adulto Dominique Bretodeau riceve una chiamata anonima e ritrova la scatola perduta dei suoi giochi d’infanzia…
Per i bambini di Hailsham, le visite di Madame e i Grandi Incanti sono incursioni della Realtà di Fuori, della Società: occasioni in cui gli studenti sognano il futuro a cui si stanno preparando. Eppure, alcuni tutori sembrano straziati dai morsi della colpa. Poco importa, perché i bambini “lo sanno” e in fondo anche noi lo sappiamo: quella vita futura non arriverà mai. Kathy, Ruth e Tommy lasceranno Hailsham per entrare nella giovinezza e nella maturità. Sanno ormai che il loro destino è diventare assistenti di donatori e un giorno loro stessi donatori. È così che finiranno il loro ciclo di cloni creati dalla medicina al servizio degli esseri umani.
Avrete la sensazione che la trama sia imperfetta e che alle anticipazioni della prima parte non corrisponda un’adeguata spiegazione nella seconda. La ragione è che non conta la trama, ma l’idea. (tempo fa vi avevo raccontato di un altro Premio Nobel che ci ha avvisato di come la trama possa essere irrilevante…) Divorerete il libro in fretta, gli occhi incollati a una storia che è un oggetto morale che ci rappresenta tutti. Perché Kathy, Ruth e Tommy non tentano di fuggire? Risponde Kazuo Ishiguro: “Volevo che i personaggi reagissero all’orribile programma a cui saranno sottoposti nello stesso modo in cui noi accettiamo la condizione umana sapendo che invecchieremo, crolleremo a poco a poco per poi morire”. Il loro viaggio nella vita attraversa l’amicizia, l’amore, scelte e speranze, ma è la sua fine annunciata che lo rende il simbolo della nostra esperienza di esseri umani. Ma andiamo a vedere le numerose implicazioni di questa storia…
Dato che non possiamo fuggire, cosa conta davvero nella vita?
Dice Ishiguro: “il romanzo celebra il bello delle persone. Forse è triste perché sappiamo che moriranno, ma questo è vero per tutti noi. Cosa conta davvero, quindi? Le amicizie, le relazioni, l’amore, il senso… queste cose sono importanti alla fine, non di certo la carriera. Pensavo che Non lasciarmi fosse il mio libro più ottimista, ma le persone ridono quando lo dico. E questo non è bello.”
In verità, Kazuo Ishiguro ha risposto alla domanda su cosa conti davvero nella vita con il suo capolavoro. Quel che resta del giorno è un romanzo che affronta ancora il tema della mortalità, ma da un’altra angolazione. Anche la trasposizione cinematografica è meravigliosa: Anthony Hopkins è eccelso nel trattenere il sentimento quanto Emma Thompson è divina nel donarlo. Due dinamiche, queste, che rispecchiano la dicotomia etica quasi insanabile della società capitalistica: narcisismo ed empatia, mascolino e femminino, successo economico e successo interiore, fallimento relazionale e fallimento economico. È stata fatta una trasposizione cinematografica anche di Non lasciarmi, ma nonostante la bravura degli attori il film è grigio e angosciante, laddove il romanzo è invece pieno di vita.
Nella conferenza del Nobel, scrive Ishiguro di Quel che resta del giorno: “è la storia di un maggiordomo che realizza, troppo tardi, di aver vissuto la sua vita secondo valori sbagliati, di aver donato i suoi anni migliori al servizio di un simpatizzante nazista e che nel non assumersi responsabilità morali e politiche per la propria vita, in qualche modo l’ha sprecata. Ancora di più: nel suo tentativo di essere un servitore perfetto, ha impedito a sé stesso di amare la donna di cui voleva prendersi cura, e di essere amato da lei”.
“La maggior parte di noi”, spiega Ishiguro in un’intervista, “fa il maggiordomo. Lavoriamo ma non sappiamo come il nostro contributo lavorativo verrà utilizzato. Spesso siamo ciechi, o semplicemente speriamo che il nostro lavoro venga utilizzato bene. Siamo sempre politicamente ed eticamente in questa posizione”.
L’importanza della memoria: come individui e come nazioni, cosa dobbiamo ricordare?
Se il tema centrale di Non lasciarmi è la consapevolezza della mortalità e l’invito a celebrare le cose che contano, il tema secondario è il ruolo della memoria, la riflessione sul proprio passato come passaggio necessario nella costruzione dell’identità. Nella conferenza del Nobel, Ishiguro racconta di essere stato trapiantato in Inghilterra all’età di cinque anni, nel 1960. I genitori parlavano spesso di tornare in Giappone, prima o poi. Il piccolo Kazuo è quindi cresciuto con l’idea di un luogo mitico chiamato Giappone, una costruzione interiore che con la maturità ha rischiato di crollare. Così a 24 anni si è imbarcato in quello che definisce un “atto di auto-conservazione“.
Arrivato nel Norfolk “con uno zaino, una chitarra e una macchina da scrivere”, Ishiguro ha seguito un corso di scrittura creativa presso l’Università dell’East Anglia, ancora oggi una fucina di attività letterarie. Scrive Ishiguro di quell’inverno in una stanzetta fredda: “senza quei mesi cruciali non sarei mai diventato uno scrittore […] Il “mio” Giappone era unico e al tempo stesso così fragile […] e io volevo ricostruirlo nella narrativa, metterlo al sicuro così da poter puntare al libro e dire, un giorno: certo che esiste il mio Giappone, è lì dentro”.
Non è quindi un caso se Ishiguro ha voluto che Kathy, Ruth e Tommy andassero nel Norfolk. È l’unico viaggio che faranno nella loro vita. È là che vogliono cercare e ritrovare qualcosa… e se proprio là perderanno la speranza di poter sfuggire al loro destino di mortali, troveranno qualcosa di più importante. Quel qualcosa è l’inesprimibile Grande Incanto: ciò che decidiamo di conservare del nostro passato e che costituisce la tensione della nostra identità. È ciò che ci consente di capire cosa conta davvero nella vita. Non è un caso nemmeno che Kathy e Ruth abbiano due stili diversi nel relazionarsi alla memoria: se Kathy conserverà il suo baule per sempre e senza vergogna, Ruth lo butterà via cercando di adeguarsi ai dettami della società.
Il giudizio su cosa sia l’identità e quale il ruolo della memoria non è semplice. Nell’ultima parte della conferenza del Nobel, Ishiguro si chiede: “Quando dovremmo scegliere di ricordare? Quando è meglio dimenticare e andare avanti? […] Ho spesso scritto di individui in lotta tra la memoria e l’oblio. Tuttavia, in futuro, ciò che vorrei fare è scrivere una storia su come una nazione o una comunità affrontano le stesse domande. Le nazioni ricordano e dimenticano come gli individui? Cosa esattamente sono le memorie delle nazioni?”
La riflessione si fa amara nelle ultime pagine, quando Ishiguro “si strofina gli occhi” come risvegliandosi da un sogno. Ammette che il suo mondo interiore ottimistico è finito nel 2016, con l’elezione di Trump: “mi ha costretto a rendermi conto che irrefrenabile ascesa dei valori umanistici e liberali che avevo dato per scontata sin dall’infanzia era forse un’illusione”. Il 2016 diventa per Ishiguro il simbolo e il culmine di un lungo periodo storico segnato da crisi economiche, ineguaglianze, ascesa di ideologie di destra estrema, razzismo e guerre. Tutto questo lo porta a riflettere sull’identità dello scrittore: forse dobbiamo rivedere anche questa identità, dice. Questa memoria. Forse dobbiamo aprirci a nuove voci, nuovi modi di narrare, e non restare chiusi in definizioni stantie di cosa sia la buona letteratura.
Non mi stupisce la ragione dell’assegnazione nel Nobel a un uomo che non si stanca di sedersi sull‘orlo del vuoto. Si siede sull’orlo del baratro che si è appena aperto sotto i nostri piedi. Ci ricorda di riflettere su cosa conta davvero in una società votata a tutto fuorché alla nostra felicità.
“Premio Nobel a Kazuo Ishiguro, che in romanzi di grande forza emotiva ha scoperchiato l’abisso che si cela sotto il nostro illusorio senso di connessione col mondo”.
(2017, Accademia di Svezia)
per BookAvenue, Silvia Belcastro