Ognuno ha le proprie ossessioni senili. Philip Roth, che non ne avrebbe per nulla bisogno, ha quella per il Nobel, sempre agognato, mai vinto.
A Los Angeles, alla presentazione di un documentario sulla sua carriera, Roth ha attaccato il comitato del premio: «Ho corso con cavalli molto veloci – ha detto Roth, citando William Styron, E.L. Doctorow, John Updike e Joyce Carol Oates, tutti giganti della letteratura americana esclusi dal prestigioso riconoscimento dell’Accademia di Stoccolma -. Ma il comitato del Nobel non è d’accordo con me. Ci giudicano provinciali. Provinciali saranno loro». Finendo per fare, al netto del suo talento assoluto, la figura del provinciale.
È un po’ come la quarta di copertina di tutti i libri di Roth, pubblicati in Italia da Einaudi, dove si scrive: «Philip Roth ha vinto il Premio Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, nel 2002 il più alto riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa. Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circle Award, e tre volte il PEN – Faulkner Award»… e via di seguito, elencando tutti i premi della sua carriera … facendo così risaltare, in absentia, quello mai vinto. Il più importante.
Tutti hanno una fissa. Confermando che Nemesis, uscito nel 2010, è stato il suo ultimo romanzo («Ho trovato ispirazione 31 volte. Non voglio trovarla più. Sono stanco», si è lasciato andare durante la tavola rotonda della Television Critics Association di Pasadena), Roth all’immancabile domanda su quale dei suoi capolavori sia a suo giudizio il «più capolavoro» di tutti, ha citato al primo posto Il Teatro di Sabbath e al secondo Pastorale Americana. Poi lo scrittore – ultimamente alla ribalta del palcoscenico mediatico mondiale per aver polemizzato con Wikipedia e poi proprio per l’annunciato dell’addio alla letteratura – ha raccontato alcuni aneddoti. Tra i quali questo. Dopo essersi accorto che Lamento di Portnoy stava per diventare un successo – siamo nel 1969 – invitò a pranzo mamma e papà per metterli in guardia del contenuto a luci rosse del romanzo. I genitori non furono eutusiasti: «Mia madre tornò a casa e disse: Quel ragazzo ci resterà male. Soffre di manie di grandezza».