.
di Francesca Lombardi
Gli antenati degli Indiani d’America arrivarono nell’America del nord in epoca remota con un antichissimo patrimonio culturale diverso da tribù a tribù che rischiò di andare perduto in quei pochi anni di colonizzazione inglese delle loro terre. Di tutto questo c’è traccia grazie anche a scrittori come James Fenimore Cooper, scrittore inglese che visse le battaglie insorte all’epoca fra gli inglesi che volevano dominare e i nativi. Il suo romanzo “The last of the Mohicans”– L’ultimo dei Mohicani ne racconta le vicende e da esso è stato tratto un altrettanto film famoso ai giorni nostri con un grande protagonista, come l’attore Daniel Day Lewis.*
A metà del 1850 i nativi scrivevano in inglese già da circa due secoli, il primo libro di poesia nativa The Ojibway Conquest”- La conquista di Ojibway di George Copway ne è prova. La prima raccolta di poesie native tradotte in inglese è del 1918. Negli anni successivi si è cercato di recuperare quella tradizione orale fatte di storie e leggende che si è ritrovata nei nativi contemporanei. La scrittura per un poeta nativo come Simon Ortiz è tramandare il patrimonio culturale. Lui stesso ci dice come i suoi nonni finché erano in vita pensarono a lui e agli altri, grazie alla fede nella continuazione dell’esistenza. Conservarono quella cultura fatta di storie che giunsero al nipote. Ortiz narra di queste storie nel suo A Story of how a Wall stands- Storia di come un muro sta eretto.
Anche quando la tradizione poetica della lingua inglese si afferma su quella nativa, le tematiche rimangono quelle del suo mondo in un interessante meticciato culturale. Frank Prewett poeta irochese dell’età modernista si trasferisce dalla regione Ontario in Gran Bretagna ed è lì che scrive poesie in quartine in rima riconsegnando alle parole il rapporto del suo popolo con la natura.
Simon Ortiz, James Welsh e N.Scott Momaday sono i poeti nativi che meglio conservano quel patrimonio culturale dei loro avi che è fatto di rapporto con la natura, di parole che sono magiche perché possono provocare mutamenti fisici nell’universo. Certe parole possono placare una bufera, far crescere il raccolto, sottomettere un nemico. Sicuramente gli Indiani d’America conoscevano la natura intimamente e la rispettavano molto più di altri. Momaday vinse il premio Pulitzer nel 1969 con il romanzo House made of Dawn- Casa fatta d’alba.
Il linguaggio nella cultura indiana ha carattere sacro e i canti sono rituali, è attraverso i canti che gli Indiani comunicavano con il mondo dello spirito.
Alcuni versi di una poesia della tribù dei Navajo:
A prayer of the night chant
Tségihi!
House made of dawn
House made of evening light
House made of dark cloud
House made of male rain
House made of dark mist
House made of female rain
House made of pollen
House made of grasshoppers
Riporto la traduzione: Preghiera del canto della notte
Tsègihi!
Casa fatta all’alba
Casa fatta di luce della sera
Casa di nuvola scura
Casa fatta di pioggia maschile
Casa fatta di nebbia scura
Casa fatta di nebbia femminile
Casa fatta di pioggia femminile
Casa fatta di polline
Casa fatta di cavallette
La traduzione è di Antonella Francini
Da questi versi si evince il rapporto stretto fra uomo e natura, fra fenomeni naturali a cui gli Indiani attribuivano un sesso maschile e uno femminile. La pioggia che diventa di sesso maschile poi la ritroviamo di sesso femminile. Si percepisce il rapporto viscerale degli Indiani con le loro terre. Certe loro conoscenze che andavano oltre la materia.
Per BookAvenue, Francesca Lombardi
Fonti bibliografiche:
Antologia della poesia americana, Capitolo La tradizione degli Indiani d’America a cura di Antonella Francini.
*Citazione di Francesca Lombardi