Elizabeth Strout, Resta con me

   Tempo di lettura: 9 minuti

È l’inverno del 1959. Al giovane reverendo Tyler Caskey è stata da poco affidata la parrocchia di West Annett, una cittadina del New England settentrionale. Tyler vi si è trasferito con la moglie Lauren e la più grande delle loro due bambine, Katherine. La comunità è incantata dal nuovo pastore, colto e appassionato, mentre Lauren è l’emblema di un’America un po’ troppo distante: solare, florida e capitalista. Eppure, è già passato un anno dalla morte improvvisa di Lauren e la panca in terza fila è ancora vuota. In fondo, “ quella donna era stata bella”. Gli ingranaggi del destino si mettono in moto…

 Elizabeth Strout tesse con maestria una ragnatela di pensieri, parole, opere e omissioni. É una rete di minuscole relazioni di causa e effetto, che rivela la connessione di animi e destini umani. I fili da seguire sono tanti, tipici di un romanzo corale. L’amicizia di Tyler con Connie Hatch, la domestica di mezza età, desta pettegolezzi. La piccola Katherine poi, ha smesso di parlare dopo la morte della madre; sembra una bambina malvagia e squilibrata, e qualcuno l’ha addirittura sentita dire: “Odio Dio”. Infine, Tyler pare aver perso il suo lustro, i sermoni sono diventati noiosi e… forse il reverendo non è quel che sembra?

Resta con me è un romanzo che precipita. Per i primi due terzi la tensione si accumula, soporosa e immobile come la neve congelata dagli inverni del New England. Nelle ultime cento pagine invece, il sole scioglie la superficie ghiacciata degli eventi e i frutti oscuri vengono allo scoperto. Il lettore scivola nel vortice delle conseguenze che lui stesso, assieme ai personaggi, aveva sottovalutato. Di colpo, Elizabeth Strout penetra il cuore umano a tutto spessore, lo svela, e infine lo salva.

Il mondo di fuori viene citato di rado, ma è un deus ex-machina. É il mondo a ridosso dell’incontro tra Khruščëv e Eisenhower a Camp David, evento che allenta la tensione della Guerra Fredda e che la Strout cita espressamente. Scrive che forse, a West Annett, la gente andava in chiesa perché desiderava credere “che dopo mezzo secolo di colossali orrori umani il mondo potesse forse diventare finalmente un luogo rispettabile, virtuoso e sicuro”. L’anima di West Annett è anche questo: una violenza filtrata dalla spessa coltre della provincia e un terrore che ha toccato la comunità come una notizia abnorme ma confusa, impossibile da elaborare. La cittadina è un unico organismo all’interno del quale hanno luogo segrete battaglie: la psiche collettiva rimuove e sublima, ma soltanto il sacrificio sarà in grado di risvegliarla e lavare la ferita narcisistica dell’abbandono (per gli amanti di Philip Roth: è stato impossibile, per me, non pensare a La Macchia Umana). Tyler si vede arrivare un’ondata di umanità: a West Annett ci sono amori stantii, mani che non sanno ritrovarsi, il grido disperato di chi non vuole essere insignificante e soprattutto ci sono sentimenti che, di colpo, tracimano dai decorosi eredi dei Padri Pellegrini come il pianto di un bambino. Grazie al reverendo Tyler Caskey, uomini e donne plasmati dagli inverni del New England e da un’idea della vita come lotta, vedranno sciogliersi la prima neve.

Il percorso sarà durissimo. Il mondo di fuori ha plasmato discorsi e scelte come un sortilegio. È un mondo che ha perso Dio nella scienza, nella psicanalisi e nella guerra. Che senso ha il mondo moderno, si chiede Tyler, senza la capacità di considerare la vita un dono di Dio? In qualche modo, è un mondo asservito alla “vanità personale” (è interessante notare che il 1959 è anche l’anno in cui nasce Barbie), ed è di questo che il reverendo crede di voler parlare nei suoi sermoni. Ci crede, almeno, finché Lauren non muore. Lauren amatissima, Lauren-Barbie che gli aveva dato del vigliacco e che forse aveva ragione. Lauren del Massachusetts, Lauren Mammona-e-Capitalismo là dove Tyler vuole essere fede. Invece è proprio “la fede a perdere lui”, scrive la Strout. Tyler si trova a riflettere sulla propria, di vanità, e a perdere di vista il confine fra purezza e peccato, innocenza e colpa. Il reverendo insegna come pensa uno scrittore: sono i peccatori a farlo riflettere sul peccato, perché più va a fondo nel giudizio e meno gli è possibile giudicare. È lui il primo peccatore e per questo decide di affrontare l’altare per l’ultimo sermone. Come Gesù, sceglierà la durezza estrema: l’amore.

Il reverendo Tyler Caskey è uno dei personaggi più intensi degli ultimi decenni. Lo scopo della sua vita è ritrovare a ogni passo la Sensazione: “quando ogni scintilla di luce che tocca i rami di un salice piangente immersi nell’acqua, ogni alito di brezza” lo riempiono della “profonda e incrollabile consapevolezza della presenza di Dio”. Il suo terrore più grande è perderla, la Sensazione, e proprio per questo la perde. La Sensazione, infatti, abitava l’abbraccio limpido di Lauren.

Un altro dato interessante: i sermoni di Tyler Caskey sono ispirati alla vita e alle opere del teologo evangelico Bonhoeffer, che dopo aver partecipato alla Resistenza contro Hitler, all’inizio della guerra ritornò in Germania per condividere le sorti del suo popolo (morirà impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg, pochi giorni prima della fine del conflitto). Come Bonhoeffer, Tyler ricerca l’integrità. È un vero pastore, e come tale è un riflesso di Gesù. Come Gesù, viene incompreso, tradito e umiliato. Come Gesù, verrà esposto sull’altare e sceglierà l’unico atto riparatore. Tyler l’innocente prende su di sé la colpa dell’assassino, dell’eretico e dell’adultero, riuscendo nell’atto estremo dell’empatia che fu prima di Gesù e poi di Bonhoeffer, e che diventa qui compito e maestria dello scrittore.

Anche Tyler ha la sua Maria e la sua Maddalena, che gli mostrano ciò che anche Bonhoeffer gli insegna: che la Grazia può essere “a buon mercato” e a volte si cade nella vanità proprio tentando di rifuggirla. La vera Grazia, invece, “si paga con la vita”. Ma che cosa significa, “con la vita”? Elizabeth Strout lo spiega con questo romanzo.

Le ramificazioni della sua analisi sono poliedriche: l’abisso degli errori umani, ad esempio, trova come sempre il suo tempio in un bambino. La piccola Katherine interpreta la violenza degli adulti come può, finché diventa lei stessa la violenza degli adulti: la morte della madre, la tristezza del padre e il vociare di West Annett. Quello di Katherine è un pre-pensiero, un nucleo puro, ciò che la scrittrice Natalie Goldberg definisce un “Primo Pensiero”: il cuore indicibile da cui origina la parola scritta. Katherine capisce la vita, anche se non sa decifrarla. Capisce la manona del padre quando questa si appoggia sul suo ginocchio per poi allontanarsi, perché le lascia dentro un senso di perdita come un livido.

Elizabeth Strout si tuffa nell’abisso del dolore umano, poi risale in superficie e porge al lettore una Risposta. Forse su quell’altare, per l’ultimo sermone di Tyler, c’è proprio lei – la scrittrice – con tutta la sua mania di amare gli esseri umani nonostante tutto. E quel tutto è fondamentale dirlo proprio tutto, togliendosi il cappello. “Scrittura senza ego”, hanno detto di lei. Forse è vero. La Strout è al tempo stesso durissima e trasparente, come il diamante, e per questo la luce arriva ovunque. E’ difficile dire che cosa, nei suoi romanzi, ti lasci addosso questo senso di riverenza. È la Sensazione – appunto – di aver assistito a un miracolo. Riesce nell’atto di convincerci non tanto dell’esistenza di Dio, quanto dell’esistenza della Grazia. E forse la Grazia non ha nemmeno bisogno di quel Dio. Forse la Grazia è “quando, in meno di mezzo secondo, si ha la sensazione di aver intravisto l’anima dell’altro, e si condivide un frammento di autentica comprensione”.

 

 per BookAvenue, Silvia Belcastro


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Elisabeth Strout,
Resta con me,
Fazi editore,
rist. 2022 pp.372

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