“Ora le droghe non funzionano”, cantavano i Verve nel 1997, “mi fanno solo stare peggio”. Forse il termine inglese drugs – che può essere tradotto sia con droghe che con farmaci – mi ha suggestionato, fatto sta che questa canzone mi è rimasta in mente per tutto il tempo che ho passato a leggere questo libro. Quale libro dite?
Stavo vagabondando per l’aeroporto di Bristol in attesa del mio volo, e siccome ognuno ha, appunto, le sue droghe… io ero alla ricerca di un ultimo, prezioso libro da portarmi in Italia. L’occasione si è presentata vicino al bancone della libreria-supermercato, dove questo saggio si ergeva in una piramide di decine di copie, vicino al succo di mela biologico e alle patatine in sacchetto. Ma chi era questo studioso che – passatemi il termine – stava lucrando sul fatto che le compagnie farmaceutiche stavano lucrando sulla sofferenza umana? Ero il cittadino citato nel titolo, ero parte in causa, ero curiosa.
L’avevo già adocchiato in libreria: era un saggio sui fallimenti della psichiatria e si presentava dichiaratamente come un best-seller. Vedo che state cercando il titolo su internet. Vi fermo subito: in italiano non è stato tradotto, quindi dovete accontentarvi della mia recensione o avventurarvi in una lettura in inglese. In italiano esiste l’importante saggio di Allen Frances – Primo: non curare chi è normale – ma ancora non troverete in vendita l’opera di questo antropologo dal piglio molto, molto inglese.
Ma veniamo alla sostanza. Il saggio è una serie di interviste ben organizzate intervallate da lucide analisi. Copre tutti i temi scottanti riguardo all’affidabilità della scienza psichiatrica, le preoccupanti carenze del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) e le inevitabili collusioni fra psichiatria e industrie farmaceutiche. La mancanza di quelle che l’autore chiama “prove scientifiche” riguardo alla teoria biologica dei disturbi mentali è il perno della discussione.
Personalmente, ho letto Cracked cercando di mantenere un punto di vista al tempo stesso scettico e mentalmente aperto, ma devo ammettere che ha incrinato il mio piccolo bozzolo di tranquillità e fiducia. C’è da dire che lo studioso analizza principalmente la situazione americana e inglese – ben differente, per certi versi – dalla nostra. I dati europei che presenta sia sull’uso degli psicofarmaci che sulla collusione della ricerca sono comunque molto inquietanti. Senza addentrarmi nel mio punto di vista (che implica anche qualche critica), vi presento brevemente gli argomenti trattati.
Il professor Davies comincia dal famoso Esperimento Rosenhan, pubblicato su Science nel 1973. Cinque psichiatri in incognito finsero allucinazioni uditive al fine di farsi internare in diversi ospedali psichiatrici degli Stati Uniti. I risultati dell’esperimento furono scoraggianti. L’esperienza mise infatti in luce i rischi delle istituzioni psichiatriche: disumanizzazione, stigma e soprattutto i limiti delle pratiche diagnostiche.
James Davies fa poi un excursus storico sulla nascita ed evoluzione del DSM (Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali, ovvero la Bibbia di tutti gli psichiatri). L’antropologo ripercorre tutti gli stadi dell’evoluzione del manuale dalla prima edizione del 1952 fino all’ultima imponente versione del 2013. Le conversazioni con eminenti psichiatri rendono il libro scorrevole ma sono – sostanzialmente – sconfortanti. La conclusione è che “ciò che colpisce della costruzione del DSM è che la procedura seguita ha spesso avuto poco a che fare con la <scienza> così come la maggior parte della gente la intende, e la ragione è che – in breve – le prove scientifiche non c’erano” (la traduzione è mia).
Addentrandosi sempre di più nel saggio, Davies esamina pezzo per pezzo il funzionamento del legame Psichiatria – Ricerca – Industrie Farmaceutiche. Grande attenzione è riservata agli studi di Kirsch sul placebo, ovvero a quella prima volta in cui è stata la scienza a dimostrare la dubbia efficacia di molti psicofarmaci.
Il meccanismo, spiega il professore, funziona così. Prima di tutto, le università inglesi e americane (noi come ci collochiamo?) sono finanziate dalle industrie farmaceutiche e dunque la loro libertà di ricerca scientifica è ontologicamente in pericolo. Gli studi vengono manipolati e i dati imbarazzanti riguardo ai farmaci vengono insabbiati (o addirittura esclusi) in una rosa di modi legalmente e scientificamente accettati.
In secondo luogo, I farmaci vengono costantemente ri-etichettati al fine di incrementare le vendite, muovendosi in parallelo con l’introduzione (o invenzione?) di nuovi disturbi mentali. Durante le ultime decadi, scrive Davies, il numero di disturbi mentali definiti dal DSM è pericolosamente aumentato. L’ammontare di prescrizioni di psicofarmaci ha raggiunto picchi inauditi e il professore – dati alla mano – si sofferma solo sul caso emblematico del Prozac. La fluoxetina venne di fatto ri-etichettata nel momento in cui fu introdotto un particolare disturbo depressivo delle donne nel periodo pre-mestruale. Una pillola di fluoxetina ha dunque continuato ad essere denominato “antidepressivo”, mentre un’altra (rinominata Serafem), è stata dedicata al cosiddetto disturbo pre-mestruale che conoscete bene. In quest’ottica, il saggio analizza poi un atro eclatante caso tipicamente americano, quello dei bambini etichettati ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività, o come si chiama in italiano).
In terzo luogo, il professore ci svela che non tutti sono cattivi – anzi – ma esiste la Piramide della Fiducia. Qui scatta la paranoia vera e propria, perché se così stanno le cose… allora gli psichiatri alla base della piramide si affidano genuinamente ai dati e a un sistema di reciproca fiducia piramidale. Peccato che in questo sistema ci siano piccole crepe in cui si inseriscono i rappresentati delle industrie farmaceutiche, addirittura pagando i professionisti per fare – di fatto – pubblicità ai farmaci. Una situazione che spero non coinvolga in nostro paese, ma ammetto che dopo la lettura ho dei grossi timori al riguardo.
Infine, come vi dicevo Davies insiste sugli esperimenti di Kirsch sul placebo e gli antidepressivi. Per farla breve, i dati mostrano che gli antidepressivi non funzionano nel modo in cui la gente comune pensa e sono di fatto efficaci tanto quanto un placebo.
Ma l’ultimo argomento trattato da Davies è forse quello in cui l’approccio antropologico brilla per profondità là dove altrove si caratterizzava per rigidità e qualche omissione. La classificazione dei sentimenti umani e la loro conseguente medicalizzazione è infatti – soprattutto – un tema filosofico. La psichiatria ha in qualche modo anche sostituito i miti e i rituali che riguardano, per esempio, il dolore e la morte. Scrive Frances: “Riclassificare il dolore che segue il lutto come un sintomo di depressione non solo aumenterà le vendite di farmaci non necessari, ma ridurrà anche la santità del lutto come una condizione naturale dei mammiferi e degli esseri umani. Sostituirà con un rito medico un altro rituale ben più importante e celebrato da tempo. Mi sembra che vi siano rituali culturali potenti e protettivi, e che non dovremmo immischiarci Eppure trasformando questa esperienza dolorosa in malattia, stiamo facendo esattamente questo” (la traduzione è mia).
Ad ogni modo mi ricordo bene la canzone dei Verve. Che fossero droghe o farmaci, il ritornello si chiudeva con un verso suggestivo che si riprendeva di colpo tutta la poesia della vita. E’ quello che mi auspico succeda anche alla psichiatria. “Ora le droghe non funzionano, mi fanno soltanto stare peggio. Eppure io so che rivedrò il tuo volto”.