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C’è qualcosa di curioso nell’ultimo giorno dell’anno…
Scivolano via le ore e noi lo attraversiamo come se fosse soltanto l’anticamera di qualcos’altro — il primo gennaio con i suoi fuochi d’artificio e le sue promesse scintillanti. Eppure questo giorno di mezzo, sospeso tra bilanci e aspettative, merita forse più attenzione di quanta gliene concediamo. È un giorno soglia, un passaggio, uno di quei momenti in cui il calendario ci invita a fermarci, anche se preferiremmo correre avanti.
E chi meglio di San Silvestro potrebbe presiedere a questo confine? Un papa che visse lui stesso in un’epoca di frontiera, quando Roma stava smettendo i panni della città pagana per indossare quelli, ancora un po’ goffi e incerti, della capitale cristiana.
Silvestro salì al soglio pontificio nel 314, appena un anno dopo che l’editto di Milano aveva finalmente concesso ai cristiani il diritto di esistere alla luce del sole. Prima di lui, il papa Milziade — africano, dettaglio che la storia spesso dimentica — aveva già sperimentato questa strana libertà dopo secoli di ombre e catacombe. Ma fu Silvestro a dover gestire la trasformazione vera e propria, quella che cambia non solo le leggi ma anche il paesaggio.
Figlio di un tale Rufino, romano anche lui secondo il Liber Pontificalis (che è un po’ il cronista chiacchierone della Chiesa antica), Silvestro nacque in un’epoca di cui non conosciamo l’anno preciso. È come se la sua esistenza iniziasse davvero solo nel momento in cui divenne papa, come se prima fosse stato semplicemente in attesa, un prete tra i tanti nella Roma ancora incerta tra Marte e Cristo.
Con Costantino — imperatore pragmatico che vedeva nel cristianesimo più un’opportunità politica che una rivelazione mistica — Silvestro orchestrò la costruzione di basiliche che oggi ci sembrano ovvie ma che allora dovevano apparire provocatorie, quasi arroganti. San Pietro sul Vaticano, edificata sopra un tempio di Apollo come a dire: ecco, qui finisce un mondo e ne comincia un altro. Il Laterano, con la sua basilica e il battistero, vicino al palazzo imperiale dove il papa andò ad abitare, quasi a sancire una nuova geografia del potere. Santa Croce in Gerusalemme, San Paolo fuori le mura — nomi che sono anche manifesti.
Ma la chiesa più intimamente legata a Silvestro è quella che porta il suo nome, il “Titulus Equitii” *, costruita su proprietà di un presbitero di nome Equizio. Sorge ancora lì, accanto alla Domus Aurea di Nerone e alle terme di Traiano, come a ricordarci che il cristianesimo non cancellò Roma ma la abitò, la riempì di nuovi significati lasciando che vecchie pietre ospitassero nuove storie.Sul suo ruolo nei grandi dibattiti teologici del tempo — la questione donatista ad Arles, l’arianesimo a Nicea nel 325 — le testimonianze sono incerte. Forse non ebbe nemmeno modo di parlare, sommerso da voci più autorevoli o semplicemente troppo impegnato a gestire la metamorfosi quotidiana della Chiesa. Eppure dovette colpire i suoi contemporanei per qualcosa di meno eclatante ma più profondo, perché appena morto venne subito onorato come “Confessore”.
Ecco… quella parola — confessore — merita di essere argomentata. Viene dal latino confiteri, che significa ammettere, riconoscere, ma anche professare pubblicamente.
Dal IV secolo in poi, il titolo viene riservato a chi ha testimoniato la fede senza morirne martire, una figura di santità meno drammatica ma non meno coraggiosa: la santità della durata, della coerenza quotidiana, del sacrificio prolungato nel tempo. Un confessore è innanzitutto qualcuno che ascolta. Sta lì, nel confessionale o nella stanza, e riceve le parole altrui — parole di colpa, di vergogna, di paura. Ma è anche chi professa, chi dichiara ad alta voce ciò in cui crede. C’è quindi in questa figura una doppia direzione: ricevere e dare, ascoltare e parlare, accogliere il peso altrui e alleggerirlo con la parola di assoluzione.
Nella letteratura, il confessore diventa spesso lo specchio in cui i personaggi vedono riflessa la propria anima. Boccaccio, con il suo gusto per l’ironia tagliente, ci mostra nel Decameron il frate che confessa Ser Ciappelletto — un criminale impenitente che in punto di morte fabbrica una confessione falsa, tanto edificante da essere scambiato per santo. Il frate assolve una finzione, ignaro di essere strumento di una beffa. Boccaccio sembra dirci: attenti, perché la redenzione apparente può mascherare l’assenza totale di pentimento, e il sacramento rischia di diventare teatro. All’opposto, don Lisander dipinge nel cardinal Federigo Borromeo un confessore autentico, capace di guidare l’Innominato — brigante e tiranno — verso una conversione vera. Qui il dialogo è vero, la colpa riconosciuta, la grazia operante. Il cardinale non giudica dall’alto, ma scende nel dolore dell’altro, trasformando la pietra del cuore in carne pulsante.Il confessore è dunque anche una figura che evoca lacrime, quelle lacere che segnano il passaggio dal peccato alla grazia. Il suo ruolo richiama la confessio peccati del Nuovo Testamento, dove il riconoscimento della colpa diventa confessio fidei — professione di fede — e poi lode.
Ammettere il male fatto libera, consente la riconciliazione, apre al perdono reciproco. Nella narrativa, questo processo non resta interiore: si traduce in azioni, scelte, cambiamenti concreti. Il penitente non è solo assolto ma anche trasformato, abilitato a una vita diversa. E qui torniamo all’ultimo giorno dell’anno.
È davvero il momento giusto per confessarsi? Per aprirsi, manifestarsi, dire finalmente quello che abbiamo taciuto per dodici mesi?C’è chi dedica questa giornata a mettere ordine. L’ordine è una forma di controllo, un modo per convincersi che il caos possa essere domato. Si chiudono cassetti, si gettano carte inutili, si svuotano gli scaffali. È un rito domestico che somiglia alla confessione: eliminare il superfluo, fare spazio, ridurre il rumore. Come se l’anno nuovo avesse bisogno di trovare una casa pulita. Ma forse l’ultimo giorno dell’anno è anche il momento in cui il disordine emerge in tutta la sua evidenza. Apri un armadio e ti cade addosso tutto: oggetti dimenticati, lettere mai spedite, promesse infrante. Il disordine non è solo fisico, è esistenziale. Sono le telefonate che non hai fatto, le persone che hai trascurato, le parole che avresti voluto dire e che hai inghiottito.
Il confessarsi, in questo senso, non è mettere ordine, ma accettare il disordine, riconoscerlo, dargli un nome. Mi chiedo se non sia proprio questa la vocazione dell’ultimo giorno: non la pulizia, ma l’ammissione. Confessare — a se stessi, a un altro, a Dio se ci crediamo — che l’anno che finisce è stato imperfetto, pieno di contraddizioni e fallimenti, ma anche di tentativi, di slanci, di piccole vittorie dimenticate. C’è qualcosa di scientifico in questo processo. Come uno scienziato che esamina i dati di un esperimento, possiamo osservare l’anno trascorso con distacco e curiosità: cosa ha funzionato? Dove abbiamo sbagliato? Quali variabili non avevamo considerato? Non è un giudizio morale, ma un’analisi. E l’analisi richiede onestà, quella stessa onestà che il confessore chiede al penitente. Ma c’è anche qualcosa di fiabesco in questo rituale di fine anno.
È come se mezzanotte del 31 dicembre fosse un portale magico, e per attraversarlo dovessimo lasciare qualcosa dietro di noi — un peso, un rimpianto, una colpa.
Le fiabe insegnano che per entrare nel regno incantato bisogna superare una prova, rispondere a un indovinello, confessare il proprio nome segreto. L’ultimo giorno è quella prova.Nel mondo attuale, il confessore ha assunto forme inaspettate. C’è chi si confessa ai social media, riversando pubblicamente pensieri che un tempo si sussurravano nel confessionale. C’è chi si affida allo psicoterapeuta, figura laica che ascolta senza assolvere, ma che aiuta a dare senso al caos interiore. C’è chi scrive diari, chi parla con gli amici, chi si confida con sconosciuti incontrati per caso. E poi ci sono gli algoritmi. Gli assistenti digitali che ci conoscono meglio di quanto conosciamo noi stessi, che sanno cosa abbiamo cercato, cosa abbiamo comprato, cosa abbiamo desiderato in segreto.
È una confessione involontaria, estratta dai dati anziché dalle parole. Ma le manca qualcosa di essenziale: la presenza. Il confessore è tale perché c’è, perché guarda negli occhi, perché la sua voce ha un timbro umano.Forse è questo che l’ultimo giorno dell’anno ci chiede: la presenza. Essere presenti a noi stessi, riconoscere cosa siamo stati in questi dodici mesi, senza filtri né finzioni. Non per fustigarci, ma per capire. E poi, magari, essere presenti agli altri — chiamare chi abbiamo trascurato, dire grazie a chi ci ha sostenuto, chiedere scusa a chi abbiamo ferito.San Silvestro visse in un’epoca di transizione e la governò con una saggezza che non fece rumore. Non abbiamo suoi discorsi memorabili, non sappiamo se fosse un grande oratore o un fine teologo. Ma sappiamo che fu capace di stare nella soglia senza farsi schiacciare, di costruire ponti tra due mondi — quello pagano che moriva e quello cristiano che nasceva.
L’ultimo giorno dell’anno è anche una soglia. E le soglie sono luoghi strani: non appartengono veramente a nessuno dei due spazi che separano, sono sospese, né dentro né fuori. Abitare una soglia richiede equilibrio, richiede di accettare l’incertezza, di non avere fretta di chiudere e aprire.Forse è per questo che sottovalutiamo il 31 dicembre: perché ci mette a disagio questa sospensione. Vorremmo già essere nel futuro, con le sue promesse intatte e i suoi fallimenti ancora lontani. Ma il futuro non si può abitare in anticipo. Possiamo solo stare qui, su questa soglia, e guardarci indietro con la stessa curiosità con cui guardiamo avanti.
Confessarsi, in questo senso, non è un peso, ma una liberazione. È dire: ecco, questo sono stato, questo ho fatto, questo ho sbagliato. E adesso posso andare avanti, non perché sia diventato perfetto, ma perché ho smesso di fingere di esserlo.Il disordine della vita non si elimina. Si attraversa, si riconosce, si accetta. E ogni tanto, l’ultimo giorno di un anno, si può anche provare a dargli un senso — non per mettere tutto in ordine, ma per trovare, nel caos, qualche filo che valga la pena di seguire.
per BookAvenue, Marco Crestani
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nota:
Proprio sul clivus, nel III secolo d.C., si affacciava un edificio tuttora esistente – vedi foto sotto -, il cosiddetto Titulus Equitii. Per visitarlo si entra nella basilica dedicata ai SS. Silvestro e Martino ai Monti (gestita dai Padri Carmelitani), in viale del Monte Oppio.
Alle spalle della chiesa, c’è Piazza di S. Martino ai Monti. La linea azzurra corrisponde al tracciato del Clivus Suburanus. La freccia rossa indica l’ingresso della basilica, mentre la freccia gialla indica l’ingresso originario (attualmente sotterraneo) della domus del III secolo d.C. Il rettangolo verde indica lo spazio occupato dalla domus antica.
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