Holden aveva ragione ─ A me è successo. Càpita a molti. E forse siamo tutti d’accordo con il personaggio di Salinger quando dice: “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere, e tutto quel che segue, vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.” Un secondo dopo aver letto l’ultima riga di Una lunga strada da fare (Mattioli Editore) cerco di contattare l’autore, Peter Soyer Beagle. E lo trovo.
La distanza che separa Oakland dalle colline romagnole si azzera su facebook. Rispolvero il mio inglese buffo e scricchiolante e gli mando un messaggio. Perché una delle sensazioni più belle per un lettore è poter esprimere la propria gratitudine a chi ti ha regalato delle emozioni. Ora, la breve risposta di Beagle è segnata sul mio calendario come un giorno di festa. Sì, Holden aveva ragione.
Un libro luminoso ─ Non saprei definirlo altrimenti. Dopo 45 anni Una lunga strada da fare (I see by my outfit, nell’edizione originale del 1965) è disponibile in lingua italiana. I lettori di fantasy conoscono bene Peter S.Beagle per un paio di amatissimi testi pubblicati negli anni Settanta dalla casa editrice MEB (Il popolo invisibile e L’ultimo unicorno, recentemente ristampato), ma questa opera è tutt’altro. È il racconto autobiografico di due amici poco più che ventenni, un road-book sulla fine dell’infanzia, un viaggio fisico ed estremo sulle strade d’America, un’esperienza comica sue due scooter chiamati per nome, una traccia scomparsa degli anni Sessanta, un coast-to-coast che alla fuga preferisce l’incontro con le proprie responsabilità (un figlio appena nato dalla compagna che l’autore non vede da oltre un anno), una storia così dolce e così aspra dove le descrizioni cedono il passo alla poesia.
PETER SOYER BEAGLE Nasce il 20 Aprile del 1939 a New York da una famiglia di artisti, scrittori, musicisti e pittori (i suoi zii erano i famosi fratelli Soyer: Moses, Raphael e Isaac). Frequenta la University of Pittsburgh in Pennsylvania e successivamente la Stanford University in California dove partecipa al Creative Writing Workshop diretto da Wallace Stegner. La sua carriera di scrittore e sceneggiatore è accompagnata dalla grande passione per la musica e le canzoni folk. • Scheda autore: profilo su wikipedia • Scheda libro: Mattioli Editore • Sito ufficiale: www.peterbeagle.com • Opere in italiano: testi su aNobii • Curiosità / 1: immagini su Flickr • Curiosità / 2: la mappa “in progress” del viaggio del 1963 cc 2010 contenuto aggregato da Àlen Loreti per BookAvenue. Citare la fonte. |
Intervista al traduttore ─ La bravura di Peter S.Beagle, capace di una delicatezza rara verso la parola scritta, è affiancata dalla competenza di Nicola Manuppelli, 33 anni, che ha lavorato sulla lingua e sul linguaggio con grande passione. L’ho contattato e bombardato di domande: sul libro, sull’amicizia con Beagle, sul “regalo” che chiude l’edizione italiana con il racconto inedito “Italian days” (strepitoso), sull’editoria di oggi e la condizione dei traduttori. Mi ha risposto con generosità e precisione, la stessa che ha messo in Una lunga strada da fare. Così, questa volta ho scelto di sovvertire l’ordine logico: sono sicuro che partendo dall’entusiasmo di chi ha tradotto questo libro, sarà impossibile per i lettori di BookAvenue non cedere alla tentazione di scoprire cosa accadde a Peter S.Beagle e all’amico Phil Sigunick in quel lungo viaggio da New York a San Francisco nella primavera del 1963. Ecco l’intervista, buona lettura.
Intervista a Nicola Manuppelli, traduttore
Nicola, qual è il tuo percorso e come hai conosciuto Peter S. Beagle?
La letteratura americana e quella irlandese sono le mie passioni da sempre. Dopo aver letto I cigni selvatici di Coole di William Butler Yeats ho cominciato a scrivere. È stato il libro che più mi ha sconvolto insieme a Una roccia per tuffarsi nell’Hudson di Henry Roth. Dopo aver pubblicato qualche racconto, ho cominciato a progettare un testo, per ora ancora in lavorazione, che coinvolge direttamente circa un centinaio di autori americani. E così mi è capitato di conoscere, e in certi casi diventare amico di molti di questi scrittori. Autori che poi ho proposto, insieme ad altri, ad alcune case editrici.
Qui, l’incontro con Mattioli…
Con Mattioli è nata una collaborazione che mi soddisfa molto, gratificata soprattutto dalla similarità di gusti. È importante per me lavorare alla cura e alla traduzione di testi che io stesso propongo. Credo che per tradurre un autore ci voglia anche una sintonia con lui. E poi, per chi scrive, è come andare a una vera e propria scuola di creative writing. Nel caso per esempio di Andre Dubus, per me è stato come trovare qualcuno che desse voce a storie che io stesso avrei voluto raccontare, e nello stesso modo in cui avrei voluto farlo – ma che, nel medesimo tempo, mi insegnava, mentre lo traducevo, molti trucchi, dettagli e sottigliezze della scrittura. Cosa che ha giovato per ciò che ho scritto in seguito.
…e la sorpresa di Peter S.Beagle.
Tornando a Mattioli, fra gli autori “amici” c’era Peter ─col quale c’era un rapporto epistolare che poteva già costituire di per sé un libro!─, e così, l’anno scorso, si è deciso di pubblicare qualcosa. I see by my outfit era il testo più in linea con il catalogo della casa editrice. E anche uno dei primi libri di Peter. Diciamo che sia filologicamente, sia a livello di immagine sembrava il testo giusto. Ma Peter ha scritto molte altre cose divertenti e di valore.
Nella prefazione scrivi: “Alcuni artisti sanno inquadrare alla perfezione un momento di cambiamento”. Beagle ci racconta un tempo di confine che riguarda da una parte la sua vita privata e dall’altra il delicato momento storico dell’America, gli anni Sessanta. Pubblicato nel 1965 questo libro riletto oggi sembra attualissimo. È l’America che non muta oppure c’è un’abilità in Beagle nel rendere universale il suo personalissimo viaggio?
Credo che l’America muti in continuazione, come tutti i paesi. Ma se un libro è raccontato con una certa onestà di scrittura ─cioè senza badare agli effetti speciali o alle mode o ai diktat editoriali─ è capace di cogliere qualcosa del reale, qualcosa dell’uomo e, dunque, qualcosa che ha valore sempre. Per questo alcuni libri restano, e magari si trasformano in classici. Noi possiamo solo leggere e scrivere del nostro tempo, anche quando ci rifugiamo in mondi immaginari e lontani. Quindi quello che cogliamo in libri ambientati in altre epoche, quello che ci può colpire è qualcosa che riguarda l’uomo, l’amicizia, l’amore, la morte, il tradimento ─insomma, tutti argomenti che, anche se in diverse forme e aspetti, rappresentano sempre le nostre problematiche. Questo non deve essere cercato in modo forzato dall’autore, l’autore deve preoccuparsi di raccontare storie e basta. È la sua adesione alla storia a influenzare la nostra adesione.
In che senso?
Mi spiego: io posso commuovermi, e anche piangere, vedendo le biciclette sollevarsi in E.T. senza che questa esperienza appartenga a nessun determinato periodo storico ─ma l’adesione del regista alla storia è tale che quello che ci sta dicendo è “ecco, questa è l’infanzia, questo è un momento magico”. Riesce a farcelo capire con il suo tocco, con le sue parole, con la sua storia. E questa storia che contiene una “emozione” è l’involucro che ci viene prestato per contenere la nostra emozione, che magari non ha ancora un involucro. È quello che, credo, può capitare anche con Peter. È un libro sincero, nel suo aderire una storia. Ma questo vale anche per i fantasy che Peter ha scritto. Si creano simpatie ed empatie fra esseri umani, e questo avviene anche con le storie, se non sono un semplice esercizio estetico o di mercato.
Una riflessione sul tuo mestiere. Spesso i traduttori lottano con scadenze impossibili, team di persone vengono reclutate per tradurre un titolo affinché possa uscire contemporaneamente in tutto il mondo. Qual è la tua opinione su queste scelte dell’industria editoriale?
Come in parte ti ho detto prima, credo che i traduttori debbano essere innanzitutto scrittori, e dunque lavorare a cose che sono nelle loro corde. Un po’ come certi attori, ci sono parti adatte. Il tempo è un problema secondario. Il piacere nel lavoro raddoppia le forze, e anche la possibilità di lavorare a qualcosa in cui si crede. Il traduttore dovrebbe essere visto innanzitutto come un intellettuale, che entra a contatto con una mente e una cultura e cerca di spiegarcele. Ma dovrebbe essere visto soprattutto come uno scrittore. Le prime opere della letteratura latina sono opere di traduttori. Solo che in quel caso venivano chiamati scrittori. Inoltre il traduttore è un operatore culturale, mette i semi per fare incontrare due culture. Se questo venisse capito, credo servirebbe anche a migliorare lo stato attuale della letteratura italiana ─che spesso si specchia nel suo provincialismo. Riguardo all’industria culturale, non credo che questo, tuttavia, sia il problema maggiore.
Qual è il problema principale, allora?
Il problema maggiore è che non c’è mai autocritica da parte degli operatori culturali. Chi sono questi operatori? Gli editori, certo, ma non solo. Ci sono piccoli editori che lavorano molto bene ma poi vengono affossati da distribuzione, giornali e scuola. Se la cultura in Italia non funziona, anche questi organi dovrebbero prendersi le loro colpe. Le pagine culturali dei giornali spesso sono semplice pubblicità di libri in uscita ─e se noti bene ogni giornale privilegia sempre due o tre case editrici in qualche modo a lui legate. La pagina culturale dovrebbe essere libera, non è uno spot. Ma forse, a volte mi sembra così, è la testa di quei giornalisti a non essere libera. Conta l’immagine, l’evento, il progetto. Ma i libri sono storie e dovrebbero essere valutati in quanto tali. Anche a scuola domina il culto dell’immagine. Negli asili si insegna a disegnare, ma si perdono le parole ─ci ho lavorato, te lo dico per esperienza. Se entri in una quinta elementare e interroghi i bambini su alcune parole elementari ti rendi conto che non le sanno. Si usa la memoria visiva. E arrivati alle superiori si insegna a leggere le antologie, pezzi di brani e mai i libri per intero. Si cerca, con le antologie, di essere esaustivi. Ma è una grossa utopia. Dal microscopico si può imparare il mondo. Sull’Odissea ci si potrebbe stare cinque anni e, attraverso i collegamenti, imparare tutto il mondo. Non bisognerebbe imparare a leggere libri, ma a leggere un libro.
Cosa si prova a tradurre per la prima volta un testo uscito ben 45 anni fa?
È divertente, perché ti devi fare una cultura sull’epoca, usare un linguaggio particolare. E poi magari, se ti piace la musica di quel tempo, ci puoi trovare anche qualche citazione interessante. Ma tutto questo vale anche per testi più vecchi ─per esempio quando ho tradotto John Synge in “Vagabondo in Irlanda”, che è di inizio Novecento.
Quanto tempo hai impiegato e qual è stato il rapporto con Beagle durante la traduzione?
Credo un mese. Con Peter si è continuato a parlare di un po’ di tutto. Ma soprattutto della sua tourné in Italia. Abbiamo organizzato dei mini-concerti con letture a Milano, Rozzano e Piacenza. Per quanto riguarda la traduzione, ho chiesto un suo consiglio soprattutto sul titolo, che in italiano non poteva essere tradotto letteralmente. L’idea del brano aggiuntivo sull’Italia mi è venuta dopo che via mail gli avevo chiesto di raccontarmi quei giorni. La mail era molto bella e gli ho chiesto il permesso di pubblicarla. E credo dimostri che gran comunicatore Peter sia!
Quale sono state le reazioni di Beagle all’uscita del libro?
Felicità, credo. Soprattutto per il fatto che questo si accompagnava al suo ritorno fisico in Italia. E stupore, perché “I see by my outfit” era un testo scritto in una lingua molto particolare, pieno di doppi sensi, citazioni nascoste, accenni a cose che appartenevano all’immaginario privato di Phil e di Peter. Quando ci siamo visti, mi ha detto di essersi preoccupato per me perché quel testo non era mai stato tradotto e lui non pensava fosse traducibile. La cosa più divertente è stata che Peter, che conosce un po’ di italiano, ha preso il testo tradotto su una pagina a casa e ha cominciato a ritradurlo in inglese. Eravamo in casa editrice, io ero davanti a lui e sudavo freddo! Ha ritradotto il testo esattamente come lo aveva scritto, poi mi ha guardato, ha sorriso e ha detto “ok”. È stata una grande soddisfazione.
“Una lunga strada fare” potrebbe essere un film? Magari girato dai fratelli Coen?
Dai fratelli Coen? Sullo stile di “Fratello dove sei?”? Non lo so. C’è anche qualcosa di molto aspro in Peter e in quel testo. Potrebbero essere i Coen, ma con la sceneggiatura di Jerry Stahl. Poco tempo prima di tradurlo ho visto “Crazy heart”. Non ricordo il nome del regista, ma potrebbe essere lui il regista adatto. Oppure, alterando un po’ il sapore del testo, una scelta originale sarebbe di farlo dirigere al Reitman di “Up in the Air”, film splendido, tra le altre cose. Bisognerebbe poi pensare a chi potrebbe fare la parte di Peter. il Peter di oggi potrebbe benissimo essere Sean Connery!
I lettori italiani ritroveranno Beagle in libreria… con i racconti che lui stesso ti ha mandato?
Può essere. I racconti sono forse la sua cosa migliore. Anche se i famosi “postulati” dell’editoria -che non capisco- dicono che i racconti sono meno vendibili di un romanzo. Non so. A me piacerebbe tradurre “Marty and the messenger”, un racconto bellissimo, credo non ancora pubblicato nemmeno negli Stati Uniti. Peter ne ha letta una parte durante la presentazione/concerto di Rozzano. È stato uno dei momenti più belli della tourné.
Comunque adesso ho appena finito di tradurre “Una lezione prima di morire” di Ernest Gaines (dal 29 settembre in libreria, Mattioli editore, N.d.R.), che ha frequentato il corso di Creative Writing di Stanford come Peter, ma qualche anno prima. È un vero capolavoro ─negli Stati Uniti ha venduto oltre un milione di copie ed è studiato nelle scuole─ e mi fa piacere annunciartelo qui in anticipo.
Àlen Loreti per BookAvenue
divertente, perchè ti devi fare una cultura sull’epoca, usare un linguaggio particolare. E poi magari, se ti piace la musica di quel tempo, ci puoi trovare anche qualche citazione interessante. Ma tutto questo vale anche per testi più vecchi – per esempio quando ho tradotto John Synge, che è di inizio novecento.
Quanto tempo ha impiegato e qual è stato il rapporto con Beagle durante la traduzione?
Credo un mese. Con Perer si è continuato a parlare di un po’ di tutto. Ma soprattutto della sua tourné in Italia. Abbiamo organizzato dei mini-concerti con letture a Milano, Rozzano e Piacenza. Per quanto riguarda la traduzione, ho chiesto un suo consiglio soprattutto sul titolo, che in italiano non poteva essere tradotto letteralmente. L’idea del brano aggiuntivo sull?Italia mi è venuta dopo che via mail gli avevo chiesto di raccontarmi quei giorni. la mail era molto bella e gli ho chiesto il permesso di pubblicarla. E credo dimostri che gran comunicatore Peter sia!
Quale sono state le reazioni di Beagle all’uscita del libro?Felicità, credo. Soprattutto per il fatto che questo si accompagnava al syuo ritorno fisico in Italia. E stupore, perché “I see by my outfit” era un testo scritto in una lingua molto particolare, pieno di doppi sensi, citazioni nascoste, accenni a cose che appartenevano all’immaginario privato di Phil e di Peter. Quando ci siamo visti, mi ha detto di essersi preoccupato per me perché quel testo non era mai stato tradotto e lui non pensava fosse traducibile. La cosa più divertente è stata che Peter, che conosce un po’ di italiano, ha preso il testo tradotto su una pagina a casa e ha cominciato a ritradurlo in inglese. ravamo in casa editrice, io ero davanti a lui e sudavo freddo! Ha ritradotto il testo esattamente come lo aveva scritto, poi mi ha guardato, ha sorriso e ha detto “ok”. è stata una grande soddisfazione.
• Immaginazione. “I see…” potrebbe essere un film? Magari girato dai fratelli Coen?
Oppure da Cameron Crowe, dove in alcuni frammenti di “Elizabethtown” sa restituire
una decadenza, una nostalgia, una lentezza che quasi mai attribuiamo all’immagine
che abbiamo dell’America?
• Futuro. I lettori italiani ritroveranno Beagle in libreria? Magari i racconti che lui stesso
le ha mandato?
Può essere. I racconti sono forse la sua cosa migliore. Anche se i famosi “postulati” dell’editoria (che non capisco) dicono che i racconti sono meno vendibili di un romanzo. Non so. a me piacerebbe tradurre “Marty and the messenger”, un racconto bellissimo, credo non ancora pubblicato nemmeno negli Stati Uniti. Peter ne ha letta una parte durante la presentazione/concerto di Rozzano. è stato uno dei momenti più belli della tourné.
Comunque adesso ho appena finito di tradurre “Una lezione prima di morire” di Ernest Gaines, che ha frequentato il corso di Creative Writing di Stanford come Peter, ma qualche anno prima. è un vero capolavoro – negli Stati Uniti ha venduto oltre un milione di copie ed è studiato nelle scuole – e mi fa piacere annunciartelo qui in anticipo.