Non conosco Alice Munro così bene da dire che “La vista da Castle Rock” sia un libro autobiografico o di memorie: più di una nota letta sul web mi suggerisce un poco che sì, si tratta di un libro assai intimo e scritto in tempi diversi dall’autrice canadese e, no, non è un libro di memorie. Mi pare di capire che presta molta attenzione alle verità che stanno di solito dietro le vite, molta di più di quanto non faccia un romanzo. Tuttavia non sono così certo da giurarci su’.
Bene. Dopo questo inizio assai contorto, molti di voi stanno decidendo di mollare questa pagina e il suo contorsionista autore e di dedicarsi a qualcosa di più produttivo. Beh!, non fatelo: complice una lunga convalescenza, e costretto (anche) mio malgrado a leggere una pila di libri, sono capitato, complice il gesto automatico di prendere il primo in cima alla colonna, su questo dono che il tempo perso ha voluto regalarmi.
Il libro consta di due parti racchiuse in una dozzina di storie. La prima parte, racconta dagli antenati della Munro: dagli O’Phaup nel 1600 fino alla generazione immediatamente precedente alla sua per ramo di padre: i Laidlaw, che lasciano la miseria della contea di Ettrick di inizio secolo, per stabilirsi in quella parte del Nuovo Mondo per definizione geografica denominata Nuova Scozia e terra biografica dell’Autrice. La vista da Castle Rock è il panorama che il piccolo Andrew contempla dalle rovine del castello di Edimburgo, all’inizio del XIX secolo. Il padre, ubriaco e in vena di scherzi, gli indica una costa lontana, sbiadita dalla foschia, dall’altra parte del mare. “Ecco fatto, figliolo, adesso hai visto l’America. Se Dio vuole, un bel giorno la vedrai più da vicino e di persona”. Il bambino crede alla bugia, senza sapere che si rivelerà profetica: pochi anni dopo prende con sé la famiglia, abbandona la povera Scozia. E da scozzese ritroverà il suo paesaggio naturale a nord dei Grandi Laghi, nel giovane e inesplorato territorio canadese. La sua storia è quella di una fondazione, una delle tante memorie famigliari che Alice Munro ha raccolto in questo libro.
Questa, è una bella trascrizione di come la sua famiglia si è stabilita in Canada, molto aderente alla storia vera , corroborata nella scrittura da vecchie lettere e documenti e di molte ricerche. Un racconto legato allo spirito del tempo che vide testimoni i suoi lontani parenti: si vede, e molto, l’attaccamento dell’autrice alla sua storia famigliare. La scrittura, registra di come le cose sono cambiate dall’inizio secolo, anche se non tutti i cambiamenti sono stati migliori. I granai hanno lasciato posto a fattorie industriali cosi come il paesaggio fisico della Huron County; un po’ meno il carattere dei suoi residenti che, secondo l’autrice, è qualcosa che dura perché è duro.
La seconda parte le storie diventano più biografia. Per i lettori abituali della Munro sono racconti dalla voce nota: parlano della giovinezza trascorsa nelle campagne della Nuova Scozia del primo matrimonio e della fuga a Vancouver, la nascita dei figli, il divorzio. Il ritorno a casa. Nell’ultimo racconto c’è il secondo marito, ambientato nei nostri giorni, e con lui attraversa i luoghi della sua infanzia. In ospedale ha appena scoperto di avere un nodulo al seno. Il marito è un geografo, e negli anni le ha trasmesso la sua passione: e così, mentre il pensiero della malattia riempie di tensione il viaggio di ritorno, lei trova una forma di conforto nel contemplare il paesaggio dal finestrino – il lavoro degli antichi ghiacciai, dei fiumi impetuosi e ormai scomparsi, del bosco che riconquista i pascoli e i campi incolti.
Naturalmente questa faccenda è molto di più che la storia di una progenie dell’Ontario fino ai giorni nostri. Le storie sono diventate fiction nel contesto di una storia reale alla quale hanno finito con il convergere. Tra finzione e autenticità, Alice Munro ha saputo regalare (a me e ai suoi lettori) il racconto di una famiglia, di un’epoca, di un Paese.
Tutti noi riscriviamo continuamente il romanzo della nostra vita. E’ l’effetto di come la memoria modula e rimodula il ricordo del nostro passato tenendo lontano i ricordi che possono farci del male (ho affrontato questa questione scrivendo del libro di Julian Barnes). Il modo che abbiamo di raccontarci è mediato dal bisogno di preservarci perché il tempo ha a che fare con l’imminenza della morte, la nostra. E’ in questo, forse, il nocciolo, il sentimento vero che muove le pagine del libro. E lo rende ai miei occhi assai bello da leggere. Vale da solo il Nobel.
Fatelo anche voi: buona lettura.
per BookAvenue, Michele Genchi
Alice Munro, la Vista da Caste Rock, trad. Susanna Basso, Einaudi
Grazie a te caro Marco. Mi piacerebbe, un giorno, parlare di libri con la stessa forza con la quale scrivi. Ma, temo, il talento si chiama così perchè è un dono dato a pochi.
grazie ancora.
Michele
Grazie per questo tuo contributo, Michele. Questo è un libro importante che insegna quanto i dettagli nella scrittura siano fondamentali.