Susan Sontag è stata una di quelle intellettuali pubbliche che gli americani chiamano social critic, impegnata e appassionata sia sul fronte politico sia su quello delle arti e delle lettere. È stata caustica e sensibile autrice di saggi e discorsi sul potere delle immagini, sulla pace e sulla guerra, sulle concezioni sociali di malattie come il cancro o l’Aids ma anche di romanzi (Il benefattore, Il kit della morte, L’amante del vulcano) e commedie teatrali (dalla riscrittura ibseniana Donna del mare a Cosa viviamo ora sull’Hiv). Ha insegnato, diretto quattro film tra lunghi e corti, diversi allestimenti scenici e scritto quasi in continuazione sin da giovanissima. Quando è morta a settantun anni il 28 dicembre 2004, non ha lasciato disposizioni circa le sue carte inedite, i suoi scritti non raccolti in volume o non finiti.
La decisione sul che farne è dunque spettata al figlio David Rieff, anch’egli scrittore, tra l’altro di un volume dedicato al lutto per la madre dal titolo Senza consolazione. Finché si è trattato di raccogliere interventi pubblici, David non ha avuto troppo filo da torcere, dando alle stampe nel 2007 un volume apparso in Italia l’anno seguente con il titolo Nello stesso tempo.
I veri dilemmi etici sono sorti di fronte ai diari personali della scrittrice, più di un centinaio di taccuini e fogli sparsi stesi dall’adolescenza fino agli ultimi anni della sua vita. Rivelare o meno quanto, nelle opere destinate al pubblico, Sontag passava sotto silenzio o lasciava trasparire solo in filigrana? Nell’introduzione a Rinata. Diari e taccuini 1947-1963, apparso negli Stati Uniti nel 2008 e che solo ora Nottetempo dà alle stampe per la prima volta in Italia con la traduzione di Paolo Dilonardo, Rieff scrive: “L’unica conversazione che abbia mai avuto con mia madre a proposito dei diari ebbe luogo quando aveva appena scoperto di essersi ammalata e ancora non si era riaccesa in lei la convinzione che sarebbe sopravvissuta anche a quel cancro del sangue, come agli altri due cancri di cui aveva sofferto in precedenza. La conversazione consistette in una sola frase sussurrata: “Sai dove si trovano i diari”. Non disse nulla in merito a ciò che avrebbe voluto che ne facessi”.
Sontag aveva venduto il proprio archivio alla Ucla inclusi i journals and notebooks senza imporre particolari restrizioni di accesso, ragione per cui David ha preferito assumersi il compito di organizzare e presentare questi materiali piuttosto che lasciare lo facessero altri. Rinata è il primo di tre volumi e abbraccia gli anni dai quattordici ai trenta di Sontag, un periodo di grande (tras)formazione della sua persona durante il quale studiò moltissimo, frequentò le Università di Berkeley, Chicago e Harvard, scoprì la sessualità, il suo desiderio per le donne e per gli uomini, ebbe relazioni tormentate con Harriet Sohmers Zwerling e María Irene Fornés, si sposò con Philip Rieff, ebbe un figlio, divorziò, insegnò, visse a Oxford e a Parigi, viaggiò e infine si trasferì a New York. Il volume termina nell’anno in cui uscì il suo primo romanzo, Il benefattore, di cui alcuni appunti lasciano trasparire il lavoro preparatorio nutrito dallo studio di Freud a cui insieme al marito avrebbe dovuto dedicare un volume poi uscito a sola firma di lui. Un anno dopo, nel 1964, sarebbe apparso anche il notissimo saggio sull’estetica camp scritto nella forma di note, punti, liste che il diario rivela esserle particolarmente congeniale, come dimostrano per esempio le sparse “note sul matrimonio”, le “note sull’interpretazione” ma anche le liste di buoni propositi e prescrizioni che Sontag si rivolgeva.
“Riservare il pensiero per la scrittura, parlare meno”; “non ripetermi; non cercare di essere divertente; sorridere meno (…); cucirmi i bottoni + cucirmi le labbra (…); chiedermi perché al cinema mi mangio le unghie; non prendermi gioco della gente, non essere sarcastica”: passi come questi rivelano una delle funzioni affidate alla scrittura diaristica, quella che Foucault, citando Plutarco, chiamò “ethopoietica” cioè di costruzione del sé attraverso l’enumerazione di principi d’azione o obiettivi da raggiungere. In Rinata, la scrittura media tra il precetto e la sua incorporazione ricorrendo al verbo “dovere” e soprattutto all’imperativo impersonale: “Regole + doveri per il compimento dei 24 anni 1. Avere una postura migliore 2. Scrivere a mia madre 3 volte alla settimana 3. Mangiare meno 4. Scrivere almeno due ore al giorno 5. Mai lamentarsi pubblicamente (…) del denaro 6. Insegnare a leggere a David”. A ciò si sommano lunghe liste di libri da leggere, di film visti, di parole e nozioni appena apprese a testimonianza dell’ipertrofica volontà di una scrittrice che credeva nel sé come progetto da compiere a ogni costo: “a volte è necessario farsi strada col coltello. A volte si finisce per rivolgere il coltello contro se stessi” scriverà nel 1978 in un saggio dedicato agli scritti autobiografici di Benjamin. In quello stesso testo, Sontag parlerà del diario intimo degli scrittori come “strumento esemplare nella carriera nella coscienza”.
La scrittura diventa e inventa il soggetto: ci sono pagine del 1957-58 in cui Sontag chiarisce che tenere un diario significa anche offrire un’alternativa al proprio vissuto, proprio come quando sceglie di raccontare in forma romanzata la separazione e il lungo viaggio in Europa che ne seguì. Rinata restituisce una Sontag implacabile con se stessa quando soffre di “diarrea della bocca e costipazione della macchina da scrivere” ma la sua severità non risparmia neppure un mostro sacro come Thomas Mann di cui a quattordici anni aveva amato follementeLa montagna incantata tanto da leggerlo due volte di seguito. Nel 1949, quando a soli sedici anni era già una matricola a Berkeley, lo intervistò ricavandone impressioni che riflettono la presunzione della studiosa in erba: “con la loro banalità i commenti dell’autore tradiscono il libro”; “scarsa conoscenza dell’inglese”.
In quello stesso anno, dopo una notte di scorribande alcoliche a San Francisco, per la prima volta Susan fa l’amore con Harriet, esperienza rivelatrice, inebriante, che le squaderna sotto gli occhi una sconfinata voglia di vivere: il che le fa apparire sotto una luce cupa una vita solo dedita all’erudizione. È interessante seguire la passione con cui la giovane Sontag vive le avventure dello spirito e della carne interrogandosi su come conciliare sete di conoscenza e sete di esperienza. Difatti, questi diari raccontano i primi passi nell’evoluzione di uno sguardo sul mondo e del linguaggio in cui si esprime l’ambiziosa adolescente che non lesina punti esclamativi (“vivere è una cosa enorme!”; “Sesso e musica! Così intellettuale!!”) e nota come in Demian di Hermann Hesse “l’imperturbabile soprannaturalismo dell’ultima parte (…) è uno choc rispetto ai parametri realistici impliciti nella prima parte”. La maturità è riservata al secondo volume in attesa di traduzione e al terzo ancora in via di pubblicazione negli Usa.
Rinata è la narrazione di un’esistenza in cui anche l’attività mentale produce effetti di corpo, come quando nel 1961 Sontag descrive la lettura come una tossicodipendenza che produce postumi simili a quelli di una sbornia. Nel dissidio tra mente e corpo, la scrittura è sutura: “devo rendere cognitivo il sesso e sensuale la conoscenza – per correggere lo squilibrio attuale”. Il pensiero di Sontag è incarnato, affonda le radici nel vissuto, nell’esperienza galvanizzante dell’innamoramento e della sensualità o nei tormenti del disamore, del matrimonio, di una maternità conflittuale. Al figlio riserva parole affettuose ma nel 1962, quando il bambino ha ormai dieci anni e gli strascichi legali del divorzio sono burrascosi, appunta: “Le tre condanne che ho scontato: l’infanzia, il matrimonio, l’infanzia di mio figlio”. Anche i silenzi sono eloquenti: Sontag non racconta la gravidanza e i primi tempi da madre. Le pagine che mancano sono quelle della vita che prende il sopravvento ma anche quelle della depressione che inibisce ogni vitalità quando per Sontag scrivere è vivere e viceversa. Ma il desiderio di scrivere, afferma nel 1959, è anche connesso alla sua omosessualità: “Ho bisogno di questa identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me”. Scrivere, come vivere, a volte è tanto impegnativo da annientarci ma basta persistere e resistere per godersi, dopo ogni fatica, una rinascita.
Silvia Nugara per l’Indice dei libri del mese
Silvia Nugara è dottore di ricerca in scienze del linguaggio e specialista in studi di genere