Siccome “la professionalità è tutto”, è venuto il tempo di mettersi davanti al computer e scrivere un articolo: ricordo di Antonio Tabucchi, a un anno dalla morte. Per farlo bisogna dimenticare di aver udito, nel silenzio della mattina, un tumulto da dentro quando – scartando un pacco con la familiare dicitura “Feltrinelli editore” – è saltato fuori “Di tutto resta un poco”, l’ultima raccolta di scritti. Postuma: per questo libro non ci saranno telefonate e nemmeno chiacchiere sulla politica, sui romanzi appena finiti, sugli amici in comune.
Quanto gli piaceva il mestiere di scrivere è il primo pensiero mentre con le dita si scorre l’indice. Il sottotitolo ci spiega che qui si parla di “Letteratura e cinema”. Infatti il benvenuto, il primo saggio, è un elogio della letteratura “compito che non avrei mai pensato di assumermi”, avverte l’autore nell’incipit. Quel che segue è una dichiarazione d’amore. Un amore cieco che non si smarrisce, appassionato eppure così analitico. “La letteratura è nomade, non stanziale (…) Inoltre è correttiva”, rispetto “alla Storia più matrigna”. “È il territorio della libertà assoluta”. E poi, con il maestro Pessoa: “È la dimostrazione che la vita non basta”. “La letteratura, come la scienza, è ovviamente creativa, nel senso che produce qualcosa che prima non c’era, vale a dire che inventa. Ma al pari della scienza non si limita a questo, che è già straordinario: scopre”.
E allora ecco Flaubert – uno dei mille autori in cui ci s’imbatte – che “non inventò il bovarismo, lo scoprì”. Tra le tante, una definizione in particolare è stata citata in questi giorni tristi d’anniversario: “La letteratura è sostanzialmente una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o meglio dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia”.
Naturale, si dirà: la scrittura cosiddetta “civile” è stata una cifra dell’intero “essere Antonio Tabucchi”, del suo modo di guardare il mondo anche oltre la pagina di un libro, letto o scritto che fosse. Questo tratto – di penna e di vita – è stato ricordato solo con fugaci cenni, ma per il professore era tutt’altro che un vezzo: e non solo perché il suo romanzo più famoso, Sostiene Pereira, è una storia di ribellione contro una dittatura. Soprattutto perché lui più che all’indignazione gridata dalla finestra, era vocato a fare i nomi. Attitudine che lo rese meno popolare di quanto la memorialistica post mortem non voglia oggi, anche tra i suoi colleghi “intellettuali” e tra i direttori dei giornali. I nomi, il professore, li fa anche in questo libro. “Per un mondo più umano” è il titolo del quarto capitolo e insieme una battaglia per cui lo scrittore che è morto in Portogallo amando follemente l’Italia, si è speso mettendoci la faccia e usando la sciabola della scrittura. Si parla delle torture di Bolzaneto (citando diffusamente gli scritti di Antonio Cassese) e di molte altre vergogne che questo Paese non ha avuto il coraggio di ripulire dalla colpa dell’omertà: “Non ho mai smesso di indignarmi e credo, con noi, molti italiani che mantengono memoria: per Piazza Fontana, per Piazza della Loggia, per l’Italicus, per la strage di Peteano, per il massacro nella stazione di Bologna, per i Servizi segreti cosiddetti deviati, per lo spionaggio operato dalla Telecom in collaborazione con lo Stato”.
Attenzione però: “Non è l’indignazione a mantenere in vita la democrazia, sono le leggi. Per questo mi piacerebbe che le gravi anomalie italiane fossero portate a conoscenza del mondo”. E per questo, a ogni maldestro – ma non innocuo – tentativo di scassinare la Costituzione, i lettori del Fatto hanno potuto, fino a un anno fa, leggere gli articoli di Tabucchi. Che non erano mai moniti: erano tentativi di mettere con le spalle al muro chi aveva responsabilità, anche solo quella di essersi girato dall’altra parte. Di solito, la risposta era una milionaria richiesta di risarcimento danni. Come quella di Renato Schifani, tanto per rifare i nomi.
Di tutto resta un poco è un Sillabario senza alfabeto o forse uno Zibaldone dei commiati: c’è il film della vita, quella “dolce” di Fellini (“a Parigi non sarei mai andato senza La dolce vita), il battito d’ala di una farfalla che “credeva di essere un fantasma” (Marylin), le parole difficili (saudade). Ci sono gli scrittori, gli amici e può succedere che le due categorie si sovrappongano. Lo si capisce qualche giorno dopo. In un’altra mattina con il cielo d’umor nero e dunque perfettamente intonato, quando dal solito pacco familiare esce un altro libro, Mi riconosci. E’ un romanzo, bellissimo e straziante, dove Andrea Bajani ripercorre la storia di un’amicizia, dà del tu alla morte e intanto parla con Antonio Tabucchi.
Ci racconta una telefonata che sarà inevitabilmente l’ultima, il viaggio clandestino contro il tempo, per arrivare a Lisbona prima che sia troppo tardi. Le mail che parlano sempre meno di letteratura e diventano bollettini medici: “In mezzo ci stavano la chemioterapia, i ricoveri, il letto d’ospedale, la fatica di provare ad accettare il corpo non soltanto come un nemico pronto a uccidere, non soltanto come uno che ha tradito, un doppiogiochista, uno passato dall’altra parte a fare da complice alla morte”. Dove Bajani abbia trovato il coraggio di mettere queste parole una in fila all’altra, è una domanda che trova risposta solo nella forza della scrittura. Che certe volte è sovrumana. Altre ingenua, come quando l’autore in fondo all’ultimo capitolo mette la parola “FINE” a una storia scritta proprio per non dare al destino la soddisfazione di aver dettato lui quella parola, l’ultima.
Se questo romanzo fosse una meditazione sepolcrale, avrebbe qualcosa di estremamente tranquillizzante, come lo sono i cimiteri di campagna verso sera. Invece è un valzer dolente attorno alla parola “orfano”: questa parola si può usarla perché i padri sono quelli che ci amano e che ci insegnano. Tutt’insieme, ci insegnano quello che amano: i padri non sempre sono papà ma spesso sono maestri, con l’amore in più. Di qui l’impossibilità dell’addio: “Il lutto, in fondo, è il tentativo di abitare il vuoto di qualcuno che si è perso”, scrive Bajani nella postfazione. “Questa storia l’ho scritta così, cercando di arredare quello spazio con il mio mobilio”. Una risposta alla domanda che Tabucchi si fa in Di tutto resta poco: “Perché si scrive? (…) Le risposte possibili sono tutte plausibili senza che nessuna davvero lo sia. Si scrive perché si ha paura della morte? È possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere?”. Si scrive, anche perché la manutenzione degli affetti non si esaurisce, non si può arrendere davanti ai corpi traditori: “Ora mi stavi davanti, ridotto quasi agli occhi”. Pensiamo che il dolore debba seguire il sentiero del pudore taciturno, per evitare incidenti. Ma nel labirinto dove si guardano gli altri andare via, non esistono indicazioni o navigatori satellitari. Ognuno cerca la propria strada, con una certezza a far da bussola: in questa Commedia ferocemente umana si può solo andare per tentativi.
Sivia Truzzi da “Il fatto quotidiano”