di Elena Lowenthal
La lingua ebraica ha un ricco lessico del dolore, possiede diverse parole per dirlo, ognuna ricca di sfumature. Ha, in particolare, un vocabolario del lutto affatto ignoto all’italiano: conosce parole per dire la partecipazione alla perdita, scandire con precisione i riti e i momenti che la accompagnano. Contiene, naturalmente, un termine per indicare l’orfanità ma ne conta anche un altro che al confronto con l’italiano spiazza, costringe ad ardue perifrasi: l’ebraico, infatti, ha una parola per indicare il genitore che ha perso un figlio.
E’ un participio passato che si applica tanto agli uomini quanto agli animali, ha un significato inequivocabile ed assoluto, un suono dolente. In italiano non esiste nulla del genere. Questa assenza versus quella presenza induce a molte riflessioni, non può non avere un’attinenza storica, reale.
Al di là di ogni possibile spunto, è indubbio che quella parola, quella presenza lessicale che è assenza abissale informa tutto il nuovo libro di David Grossman,Caduto fuori dal tempo (traduzione di Alessandra Shomroni). Perché le tante voci che lo animano sono per l’appunto quelle di genitori «orbati» (così di solito rendiamo la parola in italiano, con un termine tanto obsoleto quanto generico, che non rende affatto fede alla specificità e purtroppo all’attualità della parola ebraica). Questi genitori cantano, nel senso più triste, elegiaco della parola.
E’ infatti un libro difficile da definire. Non certo un romanzo, forse un poema, più o meno in versi. Ma sono versi sciolti, sincopati come dei singhiozzi. A cantarli sono svariati personaggi, dal Ciabattino al Duca al Vecchio Maestro di Aritmetica, dalla Donna in Cima alla Torre Campanaria alla Donna Rimasta a Casa. A dirigere questa orchestra di meste voci che vanno in cerca di figli perduti è lo Scriba delle Cronache Cittadine, che dà il là alle storie. «Donna: talvolta, quando siamo insieme, la tua angoscia si aggrappa alla mia, il mio dolore si riversa nel tuo sangue e all’improvviso, dentro di noi, sale il vapore del suo corpo intero, intatto e per un istante possiamo immaginare – è qui». C’è un respiro quasi epico nel libro, al di là delle denominazioni che l’autore assegna ai suoi personaggi, qualcosa che ricorda il buio delle tragedie greche ma anche certi passi biblici dove il dramma è evocato più che riferito.
Ma non di pura descrizione si tratta, né di semplici quadri di sofferenza in successione. Il libro è a suo modo anche racconto, perché tutti questi genitori che narrano la propria dolorosa condizione di «orfanità» all’incontrario, terribile e innaturale qual è, hanno un obiettivo, una meta. Devono, vogliono infatti raggiungere quella condizione di mezzo, quel «laggiù» dove, forse, potranno incontrare i propri figli, a cavallo fra la vita e la morte. A questo non luogo impossibile si dirigono le parole. Fra tutti, colui che forse conosce la strada, forse c’è stato, in quel laggiù, è il Centauro, una strana figura che ha la metà inferiore del corpo a forma di scrivania e in cui non è difficile individuare lo scrittore che vive soltanto per «catturare» con le parole la morte del figlio. La scrittura non è però tanto consolazione quanto necessità, via obbligata non per scendere a patti con una realtà ingiusta come quella di un figlio morto ma se non altro per guardarla.
Dunque, il teatro immaginario di questo racconto è il «laggiù», inafferrabile territorio di confine fra la vita e il nulla di cui recentemente s’è occupato, con tutt’altra prospettiva, anche un altro scrittore israeliano, Yoram Kaniuk. In Per la vita e per la morte Kaniuk racconta infatti con tratti caustici, assurdi e per questo attendibili, la propria esperienza di coma e ritorno dall’incoscienza. Anche Grossman si muove sull’infido terreno di confine fra la vita e la morte, là dove c’è soltanto il terribile silenzio di quel figlio che non vive più.
la redazione ringrazia L’autrice e La Stampa
(fonte: Tuttolibri)