In questa elaborata e ricca analisi di Franco Franceschi e Ilaria Taddei sono ripercorribili le tracce della identità storica delle città italiane, viste come realtà in cui si sviluppò l’Urbanesimo e nacquero i Comuni, forme autentiche di autogoverno cittadino, prima ancora che si configurassero le Signorie come supremazie affermate ed emergenti nelle lotte che determinarono in seguito la fine dei Comuni.
La concentrazione della popolazione in centri via, via delineati come centri urbani è stata da sempre oggetto di studio in più ambiti della ricerca storica, storiografica e sociologica che si è occupata del fenomeno dell’urbanizzazione.
In questo processo confluiscono più cause che sono appunto: la concentrazione in un luogo della popolazione, l’aumento demografico, l’accrescimento del numero delle città e la diffusione di un modus vivendi rappresentato dall’urbanesimo.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, fissata dagli storici nel 476 d.C. ad opera delle invasioni barbariche, ma anche di un progressivo decadimento economico, si assistette ad un progressivo allontanamento della popolazione dalle città romane, fino ad allora centri di vita e di civiltà raffinata, alle campagne e di lì verso l’isolamento delle foreste dove si diffondeva il brigantaggio e l’eremitaggio.
Nelle città semidistrutte e abbandonate si diffondevano i mendicanti ma anche le epidemie che spingevano verso i confini più esterni delle cinte murarie, appunto verso una campagna incolta e abbandonata.
Fu in questo progressivo abbandono ed in questa decadenza che si sviluppò in molti casi la diffusione del monachesimo con l’insorgenza di abbazie e monasteri che offrirono accoglienza alla popolazione in balia delle scorribande di banditi e malviventi. I vescovi grazie alle donazioni cospicue si erano arricchiti in maniera esorbitante tanto da portare avanti una forte evangelizzazione nei confronti delle popolazioni barbare ed anche un forte investimento nei patrimoni fondiari favorendo lo sviluppo edilizio ed urbanistico.
Tra il X e XI secolo si assistette ad un aumento demografico di pari passo all’aumento degli scambi commerciali tra i vari borghi feudali che fecero rifiorire i commerci con la diffusione dei prodotti artigianali e manifatturieri non solo all’interno della cerchia muraria ma tra feudi, contee e marche estendendo questo fermento di scambi ad altri sistemi feudali. Questa iniziazione dei commerci innescò l’aumento delle produzioni agricole e dei manufatti che rispondevano ad una richiesta aumentata e ad una nuova domanda di mercato. In poco tempo dalle campagne si riversarono nei centri deputati al commercio e agli scambi gli emigranti che presero dimora nei borghi e progressivamente in quei centri che divennero tipicamente urbani. Il progresso demografico ed il miglioramento del benessere urbano non sono dovuti solo alla diffusione dei commerci, ma anche alla organizzazione politica dei nascenti centri cittadini. Ancorate ai poteri feudali ed ecclesiastici, le città, che finora erano state controllate dai vescovi e dal sistema feudale, iniziarono forme di autogoverno e di dominazione sovrana per reagire al potere papale e imperiale con l’affermazione di nuove istituzioni capaci di garantire una civiltà urbana, laica e repubblicana. L’origine dei Comuni fu determinata proprio da questa volontà oppositiva tra potere papale e potere imperiale, quest’ultimo per contrastare il potere ecclesiastico concesse alle città forme graduali di autogoverno in cambio di collaborazioni e conservando il controllo economico dei centri urbani.
Spesso i Comuni ebbero origine da un compromesso tra la volontà di rappresentare gli interessi della Res Publica e la spinta vocazionale alla dominazione politica da parte delle famiglie egemoni. L’equilibrio tra queste due volontà stabilì l’istituzione di consolati che si estesero a molte città italiane dell’epoca e che garantirono la pace interna in un contesto di forte contrasto e conflittualità tra famiglie, clan e ceti sociali interessati al controllo commerciale e politico delle città.
Una diversa configurazione è alla base delle origini delle città nel Nord e nel Mezzogiorno, ma questa differenzazione non è legato allo stereotipo storico e storiografico tra il Nord avanzato e progredito, urbanizzato e ricco ed il Meridione arretrato e povero, bensì la differenza è comprensibile nel carattere delle esperienze urbane: al Nord maggiormente legate ad una cultura “urbana repubblicana” e al Sud fortemente influenzato dalle monarchie che se concessero autogoverni gradualmente liberi è pur vero che contribuirono alla formazione e ad una configurazione sociale profondamente diversa.
Assumono valore in questi contesti il potere creativo di queste società urbane nascenti e poi via, via più affermate che si configurarono sia a livello economico e del lavoro con la nascita delle corporazioni, sia sul piano politico-amministrativo con la nascita dei Comuni e anche sul piano culturale e sociologico con la diffusione delle lingue volgari e con l’estensione della cultura che non fu più solo ambita e gestita dal potere ecclesiastico, ma da una società laica, “borghese” che la coltivava e la diffondeva per diletto letterario e per una nuova esigenza intellettuale ed intellettualistica che ricercava stili e temi più raffinati e colti.
La coesione ma anche il contrasto tra i poteri vescovili e consolari segnò la storia della civiltà urbana e si riflesse sulle fazioni e le faide che sfociarono in lotte intestine e cittadine che caratterizzarono il difficile contesto in cui si sviluppò l’urbanesimo in Italia. A testimonianza di queste lotte di supremazia restano non solo la storia della toponomastica delle città con le zone dei traffici, delle botteghe e dei cambiavalute, ma anche le vicissitudini notarili e amministrative delle confische e delle espulsioni e l’architettura delle città stesse munite di mura e di torri fortificate sempre più alte e possenti a voler ostentare potere economico e politico delle famiglie più competitive.
Le esperienze di autogoverno italiane furono addirittura uniche nella realtà europea dell’epoca con una sempre più delineata coscienza laica e repubblicana che portò poi al passaggio dal governo consolare alla istituzione del Podestà tra la fine del XII sec. e l’inizio del XIII sec. con un magistrato forestiero, un “tecnico” remunerato e designato attraverso un’elezione da parte dal maggiore dei consigli cittadini e che veniva remunerato per i compiti di governo svolti. Si trattò in altri termini del “primo politico di professione” che rappresentava ed era espressione della maggioranza al potere. L’affermazione di questo nuovo governo retto dal podestà fece incrementare l’apparato burocratico e ampliò il sistema amministrativo dando adito ad una maggiore produzione scritta attraverso bandi, registri e regolamenti che rendevano peculiare l’organizzazione politica e l’amministrazione delle città italiane in Europa.
Il podestà era chiamato alla tutela dell’ordine pubblico, era chiamato ad arbitrare le questioni molto diffuse nelle varie fazioni per tale motivo era una figura esterna alla città, non aveva legami parentali ed amicali con alcuna famiglia e ciò lo rendeva garante della pace e al di sopra delle parti.
Mentre nell’Italia centro settentrionale si diffondevano tali esperienze politiche di autogoverno delle città a configurazione comunale e rappresentativa della maggioranza, nel 1152 l’ascesa di Federico I di Svevia riportò in auge il potere imperiale ed attraverso lo strumento feudale tentò di conciliare la legittimità delle autonomie comunali con il potere imperiale attraverso forme di consuetudini vassallatico-beneficiari. L’ormai consolidata autonomia dei Comuni fece però reagire le città che si unirono nella Lega Lombarda appoggiata dal papa e guidata dalla città di Milano. Solo con la pace di Costanza si ottenne una successiva vittoria della libertas civitatis e dunque la legittimazione del potere governativo del Comune e l’autonomia dall’egemonia politica esercitata sia dall’impero che dal papato.
In seguito, dopo il 1220, incoronato imperatore Federico II tentò nel Meridione di limitare le autonomie nelle zone franche urbane ed esercitò un controllo più saldo nell’economia delle città. La sua politica basata sul carattere itinerante della corte valorizzò un sistema di città poste all’interno delle regioni del suo regno in cui si poterono distribuire le funzioni dello stato. Limitata alla costituzione di assemblee provinciali periodiche l’autonomia delle città meridionali fu ostacolata e rallentata dalla sovranità imperiale, ma con segni di integrazione tra istituzioni feudali, realtà urbane, organizzazione del regno.
Dopo un precoce sviluppo economico le città meridionali ricche di fermenti mercantili sulle coste e di produzioni manifatturiere ed artigiane nei confini più interni, rispetto al resto d’Italia, retrocessero lentamente con l’arrivo delle dominazioni normanne e sveve che spostarono l’attenzione e le richieste produttive verso le città e le regioni settentrionali della penisola.
“Un mondo in espansione” dunque quello delle città comunali italiane che si estendeva per confini concentrici dall’interno verso l’esterno con l’esigenza di allargare le cinte murarie e di costruire torri preposte al controllo e alla supremazia, ma anche a formare un forte sentimento civico pronto ad entrare in azione qualora fossero messe in pericolo le premesse fondamentali delle nuove libertà urbane e le ormai consolidate autonomie comunali. Lotte intestine ma anche volontà di unioni compatte per combattere poteri esterni e minacciosi nei confronti della sovranità urbana. Equilibri sociali raggiunti attraverso stati di libertà ma di non uguaglianza tra i cittadini, tra popolo grasso e popolo minuto. Il fenomeno dell’urbanizzazione diffuse la libertà dell’autogoverno attraverso le corporazioni il cui funzionamento era governato da regole precise che stabilivano il controllo delle merci, i loro prezzi, fissava le ore di lavoro e dava assistenza a coloro che vi facevano parte.
Tutto questo fermento innovativo economico e sociale costituì un vero e proprio terreno fertile per lo sviluppo delle città che gradualmente divennero protagoniste sia nel panorama delle potenze marinare, sia di una vasta rete di realtà urbane interne che assunsero importanza nella lavorazione delle materie prime e nella realizzazione di prodotti artigianali da destinare ai mercati europei ed internazionali.
Le città e i comuni italiani lasciano un’indelebile traccia storica ed una ricca eredità culturale in quella spinta vocazionale che puntò sulla creatività e la libertà dei cittadini.
L’ottimo libro di Franco Franceschi e Ilaria Taddei è dedicato dunque ad un passato lontano, quello dei secoli basso-medievali, ma indubbiamente dà il senso di quanto estese e fondamentali fossero le funzioni delle città nell’Italia di allora: un passato urbano che ha pesato e continua a pesare, nel bene e nel male, anche nell’Italia di oggi. I caratteri dell’esperienza cittadina di quei secoli hanno sicuramente creato un imprinting fortissimo e dovremmo averne maggiore conoscenza e consapevolezza per comprendere meglio le nostre ‘vocazioni’ e programmare
il nostro sviluppo. Del resto il tema del governo della città, nei suoi aspetti politici, economici, urbanistici ed ambientali, era ben presente ai ceti dirigenti dell’età comunale, sempre alla ricerca di nuove soluzioni operative.
E allora si concorda con Jaques Le Goff quando afferma che l’oggi discende dall’ieri, e il domani è frutto del passato. In tempi in cui il “presente” attraversa una crisi che almeno nelle soluzioni operative fa rimpiangere i “frutti” del passato.
MARIANNA SCIBETTA E ANTONIO CAPITANO