Prosegue il racconto delle molte voci in risposta al bando degli autori dalle biblioteche venete.
È difficile farsi spazio tra le gambe nude di tutte le ragazze che affollano le cronache di questi giorni. Qualunque voce fatica a trovare ascolto in mezzo agli schiamazzi dei pupazzi ipnotizzati dalla fine senza dignità del loro anziano burattinaio.
Non c’è che una notizia da dare, ed è lui.
Non c’è che una storia da trasmettere, ed è la sua, dettaglio per dettaglio.
Il resto a pagina 32, se avanza posto.
È così che questo paese ha lasciato che Berlusconi diventasse il solo parametro del suo bene e del suo male, l’unica misura della sua indignazione o della sua assuefazione. Come stupirsi se i suoi problemi sono diventati nostri, o se le parole più familiari ce le siamo ritrovate davanti svuotate di senso e privatizzate sotto nuovo copyright?


“… Noah Barleywater, se ne andò di casa al mattino presto, prima che il sole sorgesse, prima che i cani si svegliassero, prima che la rugiada finisse di posarsi sui campi… Prese il cappotto dall’attaccapanni in corridoio ma si mise le scarpe solo una volta fuori di casa. Imboccò il vialetto, aprì il cancello, uscì, tutto in punta di piedi per non rischiare che sentendo scricchiolare la ghiaia, i suoi genitori scendessero a controllare…” 
Gli scritti di “La vita non basta” escono dal baule da matrimonio di Fernando Pessoa che conteneva oltre ventisettemila documenti acquistati dalla Biblioteca Nazionale di Lisbona. In quello che è diventato un’autentica icona letteraria, Pessoa teneva le sue carte e quelle dei suoi doppi, Bernardo Saores, Alvaro de Campo, Ricardo Reis, Mário de Sá-Carneiro, Almada Negreiros, Armando Córtes-Rodriguez, Luis de Montalvor, Alfredo Pedro Guisado, ciascuno dotato di una propria storia e fisionomia indipendente. Per loro egli costruiva passati e presenti alternativi, progettava libri che non avrebbe mai scritto, inventava professioni prese dal mondo reale. Erano i cosidetti eteronimi, ossai gli autori fantasmi che non tanto cavava dal proprio interno, ma convocava a sé con «un tratto profondo d’isteria», per la sua tendenza organizzata e costante «alla spersonalizzazione e alla simulazione».
Nel secolo del mitico far west, nelle terre selvagge dell’Arkansas, al confine con lo sterminato Territorio Indiano – rifugio di ladri di cavalli, rapinatori di treni e battelli a vapore, assassini bianchi e meticci braccati da feroci cacciatori di taglie – vive Mattie Ross, un’impertinente «mocciosa di quattordici anni… capace di andarsene di casa in pieno inverno per vendicare la morte del padre».
La ragazza che rubava le stelle – titolo originale The map of true places – , il nuovo romanzo di Brunonia Barry, è bell’esempio di come la psicologia possa indossare un bel vestito dentro un romanzo, un vestito sobrio, senza tonalità da chick-lit.

“2.666“, capolavoro postumo dello scrittore cileno Roberto Bolaño, si presenta come una compilation di pezzi di varia lunghezza. E’ però un’opera “sinfonica” in cui Bolaño non racconta una storia coerente, ma è più interessato alla ricerca e allo sviluppo di temi.