Dalla nostra inviata Livia Rocchi … Marie-Aude Murail!

   Tempo di lettura: 7 minuti

Durante la mia gita a Parigi in quinta liceo, un venditore ambulante di panini mi ha costretto a pronunciare dieci volte la parola jambon fino a quando non è stata abbastanza gradita al suo orecchio da convincerlo a darmi un sandwich rinsecchito avvolto nel domopak. Con questo primo ricordo traumatico dei francesi e i pregiudizi che vengono a galla per quanto uno cerchi di cacciarli negli abissi dove meritano di stare, cosa mi potevo aspettare dall’incontro con una scrittrice francese con quasi cinquant’anni di carriera alle spalle, insignita del titolo di Cavaliere della Legion D’Onore, circa novanta libri e cento racconti pubblicati, circa duecentomila copie vendute all’anno… insomma, UN MITO?

Esatto.

Però i suoi romanzi tolgono il fiato. Dentro ci leggo il coraggio, l’abilità di tenere in equilibrio tanti temi difficili tutti insieme, la capacità di far sorridere nel dolore, la semplicità che viene dalla padronanza della parola e tanti tanti tanti messaggi importanti. Quindi figuriamoci se mi perdo la possibilità di vedere che IL MITO esiste, sbatte le palpebre, respira. Certo non sorriderà… penso. Invece.

Paziente, generosa nel raccontarsi anche nel dolore, dolcissima con i pochi bambini presenti, per prima cosa ci ha dato una notizia così così: «Da due anni non scrivo più libri per ragazzi. La distanza è diventata troppa», per questioni anagrafiche. Sospiro, penso “No, non può essere” ma prima di dirlo ad alta voce mi ricordo quanti anni ho io che la sento così vicina, e arriva il rassicurante: «Sto scrivendo per adulti. C’è ancora un capitolo da raccontare».

Ok, allora posso crescere.

A noi racconta dei suoi incontri nelle scuole, degli adolescenti, tanti, con le braccia tagliate, dei ricoveri di alcuni suoi giovanissimi amici. Ci dice quella che potrebbe essere una banalità, ma non lo è per le premesse che ha fatto, per il modo sentito in cui lo dice.

«Gli stanno rubando il futuro»

Chi? Chiediamo.

«Sarebbe troppo facile dire… les politiques» risponde. Ma lei ha il coraggio di dire anche le cosa facili (qualcuno direbbe populiste), come chi non ha bisogno di impressionare o catturare nessuno. Poi aggiunge: «I media. Non fanno altro che parlare di Crisi, come di un mostro che non può far altro che crescere. Ma esiste davvero questa Crisi, se chi era ricco prima lo è ancora? Con lo spauracchio di questo mostro invincibile che si sta mangiando il futuro,  stanno rendendo schiavi i giovani. Crisi, Crisi, Crisi…». Dice che prova una grandissima rabbia per questo e, se tornerà a scrivere per loro, sarà per dar voce a questa rabbia.

Avevo molte domande da farle, ma di fronte a ciò che dice sembrano tutte estremamente cretine, quindi sto zitta e ascolto. Forse a una ha già risposto. Volevo sapere cosa pensava dello stravolgimento del titolo del suo ultimo romanzo pubblicato in Italia. Era Papa et maman sont dans un bateau, poetico e molto rappresentativo del testo. È diventato Crack! Un anno in crisi.

Ehm…

Ha continuato, si è raccontata, ha mostrato i primi raccontini scritti a mano, in penna rossa, fitti fitti su ogni riga di un foglio a quadretti, i disegni dei personaggi che creava, la mappa del mondo immaginario in cui si è rifugiata fino a quarant’anni («Quando ho smesso? Quando è morta mia madre». Madre della quale ci ha parlato con umorismo e tenerezza, ed ecco i suoi libri saltar fuori dalla persona, occhi lucidi lei, nodo in gola io). E i ricordi di famiglia, lettere di bisnonni, nonni e genitori, tentativi di scrittura inediti gelosamente conservati da sua nonna, il suo passato e qualcosa in più. Dal pubblico parte una domanda: “Adesso che si comunica via web o sms, a questi ragazzi resterà qualcosa del loro passato?”. La risposta è ovvia. Unita al discorso sul futuro rubato è una polaroid dell’orrore sputata fuori a tradimento da aneddoti teneri e divertenti. Chapeau!

Verso la fine, dopo i tanti momenti di pura meraviglia che ci ha regalato questa donna straordinaria (i suoi libri sono straordinari, lei dal vivo è anche qualcosa di più) alla domanda di una scrittrice italiana presente tra il pubblico: “Le capita mai di non avere proprio, ma proprio per niente, voglia di scrivere?” lei ha risposto:
“Oui”
“E allora come fa?”
Questa donna che ha pubblicato più di novanta libri e cento racconti, pluripremiati, pluritradotti, con una semplicità disarmante ha risposto:
“Je n’ecris pas. Je peux vivre sans écrir” e dopo un secondo di pausa: “MAIS” (con il MA che le usciva dalle labbra proprio in maiuscolo) “je ne peux pas vivre sans lire” (con il “lèggere” sommesso, impregnato di dolcezza, di bisogno, di inevitabile).

Peccato non averla potuta filmare e conservare per sempre, perché mi è sembrata una lezione di umiltà impressionante per tanta gente convinta di possedere il sacro fuoco, il diritto divino al nome in copertina o alla presenza costante sullo scaffale delle librerie, o sulla bacheca di facebook.

Io la adoravo già prima, adesso non so a che livello stellare arriverà la mia ammirazione.

Ha parlato di ragazzini che dormono abbracciati ai suoi libri. Ma allora cosa dovrei fare io, con la sua dedica meravigliosa e commovente sulla mia copia di Miss Charity, se non dire: “Al diavolo l’anagrafe”?

Per correttezza faccio una precisazione: le parole riportate tra virgolette non sono esattamente le sue. Non avevo registratori o fogli per prendere appunti, ero stordita come un’adolescente di fronte a Justin Bieber. Penso però di aver riportato piuttosto fedelmente almeno una parte di ciò che ha detto, sperando di poterla riascoltare e rileggere presto.

 

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