Le vite imperfette avvolte dalla nebbia di Angelo Ricci

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copertinaLo chiarisce subito il titolo: la storia che racconta Angelo Ricci in Notte di nebbia in pianura (Manni, 2008), anzi le storie, si svolgono contemporaneamente in una notte invernale di quelle in cui la nebbia della pianura padana la fa da padrona. Una notte tristemente fredda e umida, come tristi e fredde sono le vite dei protagonisti di questo impietoso ritratto dei nostri tempi. Vite che si sfiorano ma non hanno in realtà elementi decisivi di contatto, solo qualcosa di amaro da mandare giù per tutti. C’è l’ex avvocato che per vivere presenta aste televisive in una anonima rete privata, l’ubriaco Sticazzi che comunica esclusivamente col turpiloquio, un giovane infelice sia per la sua nuova condizione di orfano che per la sua enorme stazza. E poi una donna arrestata per favoreggiamento di un terrorista islamico che in realtà l’ha raggirata facendo leva sul suo bisogno d’amore e infine una partita di pocker tra amici italiani a cui assistono le fidanzate dell’Est Europa. Cinque episodi che nella narrazione asciutta, brusca, ritmata di Ricci continuano ad alternarsi come in un caleidoscopio duro, ironico e amaro, un girotondo in cui vengono messe a nudo con uno sguardo disincantato e distante miserie, solitudini, ambizioni, sconfitte, desideri e sogni infranti. Ecco cosa ci racconta Angelo del suo libro e della sua scrittura.

Le storie che racconti nel tuo primo romanzo sono amare, senza un finale positivo, senza speranza. Hai voluto esasperare questo aspetto della realtà per lanciare un messaggio provocatorio oppure hai realmente una visione negativa dei nostri tempi e dell’animo umano?

Non credo alla letteratura, ai romanzi che lanciano messaggi. Come diceva E. M. Forster “la storia è in movimento, l’arte è immobile”, cioè l’atto stesso dello scrivere o del raccontare o del narrare è parte fondamentale dell’animo umano, ed è un atto che vive di vita propria, anche se non può prescindere da ciò che accade. Ci mettiamo di fronte al computer, a scrivere le nostre storie, spinti dalla stessa esigenza del raccontare, del narrare che mosse il primo homo sapiens a disegnare di notte sulla parete di una caverna, con una selce affilata, le scene di caccia alle quali aveva assistito durante il giorno. Certamente gli avvenimenti che circondano le nostre vite hanno una forte influenza nel momento in cui decidiamo di raccontare una storia. Non esiste un modo di scrivere del tutto asettico, ed è giusto che sia così. Credo tuttavia che l’animo umano debba essere il luogo principe da indagare, da esplorare, naturalmente per mezzo degli stilemi e della struttura narrativa. Da indagare più ancora dei nostri tempi. Anche perché la realtà è sempre vissuta e interpretata dal nostro animo e quindi anche la nostra contemporaneità, i nostri tempi. Ed è proprio dall’interpretazione che il nostro animo ne fa, che nascono le nostre paure, le nostre angosce, i nostri desideri più o meno legittimi, più o meno nascosti.

La tua scrittura è abbastanza singolare: secca, sincopata, brusca, con frequenti ripetizioni di frasi che danno la misura dell’ossessione che abita i tuoi personaggi. Questo stile è nato così, spontaneamente, oppure è frutto di uno studio attento?

Non mi piace scrivere dando l’impressione di possedere verità rivelate, verità che comunque non posseggo. Né, tantomeno, mi piacciono certi scrittori che sembrano comporre un eterno bigliettino dei Baci Perugina. Non credo che la scrittura debba essere ridondante e amo molto di più il “non detto” del “detto”. Non sopporto nemmeno le descrizioni dei luoghi o dei personaggi; naturale che, in certi casi, non se ne possa fare a meno, anche in relazione all’aspetto generale della storia da raccontare. Tuttavia la chiave di volta di una narrazione è il dialogo. Un dialogo serrato, senza respiro, angosciante e, come giustamente dici, ossessivo. Quanto questo stile sia spontaneo, non ti saprei dire.
E non so nemmeno quali autori mi abbiano influenzato e se lo abbiano fatto, perché sono da sempre un lettore onnivoro, che peregrina dai classici russi e francesi a Philiph Dick e DeLillo. Non è nemmeno frutto di una programmazione a tavolino. Probabilmente è un mix di spontaneità e di studio, non so. Posso solo dirti che, quando scrivo, scrivo quello che vorrei leggere.

La nebbia invernale è uno dei protagonisti inconsapevoli della tua storia. La nebbia che intristisce e raggela i cuori. Credi che i luoghi e le situazioni siano complici se non responsabili delle negatività umane oppure vengono utilizzati solo come alibi per giustificare la naturale propensione della nostra specie all’agire negativo?

Noi influenziamo pesantemente i luoghi e i luoghi influenzano noi, altrettanto pesantemente. È un rapporto di reciproco scambio o, se vuoi, di reciproca dannazione.

La scrittura è una passione che coltivi da tempo o nata negli ultimi anni? Che importanza riveste nella tua vita?

Fino all’età di quattordici anni non sono assolutamente stato un lettore. Poi, la professoressa di Italiano della prima liceo, ci diede da leggere per l’estate i soliti autori che si indicano agli studenti: Bassani, Calvino, Pirandello, Tobino, ecc. ecc. Rimasi talmente colpito dalla lettura de Il clandestino, di Mario Tobino che provai subito a scrivere un libro. Me lo ricordo ancora. A cose fatte lo rilessi e altro non era se non il riassunto (composto malissimo!) proprio di quel romanzo di Tobino. Dopo quella parentesi del tutto ridicola, ho ricominciato a scrivere su vent’anni. Ma ho sempre buttato via tutto. Solo sui trentacinque ho cominciato a capire che quello che scrivevo poteva avere un qualche senso e allora ho iniziato a conservare, rileggere, strutturare quello che scrivevo.
Francamente non so dirti quanta importanza rivesta la scrittura nella mia vita, ma, probabilmente, è solo perché ho paura di ammettere che ne rivesta troppa.

Hai trovato difficoltà, come esordiente, a pubblicare il tuo romanzo?

Ero semplicemente uno dei tanti. Non conoscevo nessuno nel campo delle case editrici. Soltanto Mino Milani, col quale ero in rapporti per via di una iniziativa culturale che ci vedeva coinvolti. Con grande pudore gli feci leggere le mie cose e lui mi disse “sei bravo, sai scrivere”. Così feci rilegare il manoscritto e lo spedii ad una ventina di editori. Per un paio d’anni ricevetti molti silenzi e un paio di rifiuti espliciti. Poi, finalmente, la pubblicazione.  

Nuovi progetti? Nuove storie in lavorazione?

Sono estremamente scaramantico. Posso solo dire che ho una raccolta di racconti in fase di pubblicazione e due romanzi in fase di editing. Ma ho già detto anche troppo.

 

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Carla Casazza

Carla Casazza ha fatto della scrittura la sua passione e lavoro.
Laureata in Pedagogia a indirizzo storico, ha insegnato per diversi anni.
Ha pubblicato alcuni libri sia di narrativa che di non-fiction.
Vive in Trentino.

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